Manoscritti economico-filosofici del 1844
Karl Marx(1844)

Bisogno, produzione e divisione del lavoro



[XIV] 7) Abbiamo visto quale significato abbia, facendo l'ipotesi del socialismo, la ricchezza dei bisogni umani, e quindi tanto un nuovo modo di produzione quanto anche un nuovo oggetto di produzione. Nuova attuazione della forza essenziale dell'uomo e nuovo arricchimento dell'essere umano. Nell'ambito della proprietà privata, il significato opposto. Ogni uomo s'ingegna di procurare all'altro uomo un nuovo bisogno, per costringerlo ad un nuovo sacrificio, per ridurlo ad una nuova dipendenza e spingerlo ad un nuovo modo di godimento e quindi di rovina economica. Ognuno cerca di creare al di sopra dell'altro una forza essenziale estranea per trovarvi la soddisfazione del proprio bisogno egoistico. Con la massa degli oggetti cresce quindi la sfera degli esseri estranei, ai quali l'uomo è soggiogato, ed ogni nuovo prodotto è un nuovo potenziamento del reciproco inganno e delle reciproche spogliazioni. L'uomo diventa tanto più povero come uomo, ha tanto più bisogno del denaro, per impadronirsi dell'essere ostile, e la potenza del suo denaro sta giusto in proporzione inversa alla massa della produzione; in altre parole, la sua miseria cresce nella misura in cui aumenta impotenza del denaro. Perciò il bisogno del denaro è il vero bisogno prodotto dall'economia politica, il solo bisogno che essa produce. La quantità del denaro diventa sempre più il suo unico attributo di potenza: come il denaro ha ridotto ogni essere alla propria astrazione, cosi esso si riduce nel suo proprio movimento a mera quantità. La sua vera misura è di essere smisurato e smoderato. Cosi si presenta la cosa anche dal punto di vista soggettivo: in parte l'estensione dei prodotti e dei bisogni si fa schiava - schiava ingegnosa e sempre calcolatrice - di appetiti disumani, raffinati, innaturali e immaginari; la proprietà privata non sa fare del bisogno grossolano un bisogno umano; il suo idealismo è l'immaginazione, l'arbitrio, il capriccio. L'eunuco non adula il suo despota più bassamente e non cerca con mezzi più infami di eccitare la di lui ottusa capacità di godere per carpirgli qualche favore, di quanto l'eunuco dell'industria, il produttore, al fine di carpire qualche po' di denaro e di cavare gli zecchini dalle tasche del prossimo cristianamente amato, non si adatti ai più abietti capricci dei propri simili, non faccia la parte di mezzano tra i propri simili e i loro bisogni, non ecciti in loro appetiti morbosi, non spii ogni loro debolezza per esigere poi il prezzo dei suoi buoni uffici. Ogni pro-dotto è un'esca con cui si vuol attrarre a sé ciò che costituisce l'essenza dell'altro, il suo denaro; ogni bisogno reale o soltanto possibile è una debolezza che farà cascare la mosca nella pania - sfruttamento universale dell'essere sociale dell'uomo; allo stesso modo che ogni im-perfezione dell'uomo è un vincolo che lo unisce col cielo, è il lato in cui il suo cuore è accessibile ai preti. Ogni necessità è un'occasione per presentarsi al proprio pros-simo sotto le più allettanti spoglie e dirgli: caro amico, io ti do quel che ti è necessario, ma tu conosci la condi-tio sine qua non, tu sai con quale inchiostro devi scrivere l'impegno che assumi con me; nel momento stesso in cui ti procuro un godimento, ti scortico. In parte questa estraniazione si rivela nel fatto che il raffinamento dei bisogni e dei loro mezzi, da un lato, produce un imbarbarimento animalesco, e una completa, rozza, astratta semplificazione dei bisogni, dall'altro lato; o meglio, al-tro non fa che riprodurre se stesso in senso inverso. Lo stesso bisogno dell'aria aperta cessa di essere un bisogno nell'operaio; l'uomo ritorna ad abitare nelle caverne, la cui aria però è ormai viziata dal mefitico alito pestilenziale della civiltà, e ove egli abita ormai soltanto a titolo precario, rappresentando esse per lui ormai una estranea potenza che può essergli sottratta ogni giorno e da cui ogni giorno [XV] può esser cacciato se non paga. Perché egli questo sepolcro lo deve pagare. La casa luminosa, che, in Eschilo, Prometeo addita come uno dei grandi doni con cui ha trasformato i selvaggi in uomini, non esiste più per l'operaio. La luce, l'aria, ecc., la più elementare pulizia, di cui anche gli animali godono, cessa di essere un bisogno per l'uomo. La sporcizia, questo impantanarsi e putrefarsi dell'uomo, la fogna (in senso letterale) della civiltà, diventa per l'operaio un elemento vitale. Diventa un suo elemento vitale il completo e innaturale abbandono, la natura putrefatta. Nessuno dei suoi sensi esiste più, non solo nella sua forma umana, ma anche in una forma disumana, e quindi neppure in una forma animalesca. Le forme più rozze, i più rozzi strumenti del lavoro umano vengono riesumati; la macina degli schiavi romani è diventata la forma di produzione, la forma di esistenza di molti operai inglesi. L'uomo non solo non ha più bisogni umani; ma in lui anche i bisogni animali vengono meno. L'irlandese conosce soltanto più il bisogno di mangiare, o meglio soltanto più il bisogno di mangiar patate, o meglio ancora soltanto più il bisogno di mangiare le patate della qualità più scadente. Ma l'Inghilterra e la Francia possiedono già in ogni città industriale la loro piccola Irlanda. Il selvaggio, la bestia hanno ancora se non altro il bisogno della caccia, del moto, ecc., della società. La semplificazione della macchina, il lavoro vengono utilizzati per trasformare in operaio l'uomo ancora in via di sviluppo, l'uomo che non è ancora affatto formato - il fanciullo -, allo stesso modo che l'operaio è diventato un fanciullo abbandonato all'incuria più totale. La macchina si adatta alla debolezza dell'uomo, per fare dell'uomo debole una macchina.


Come l'accrescimento dei bisogni e dei mezzi produca la mancanza di bisogni e di mezzi, lo prova l'economista (e il capitalista: noi in genere parliamo sempre degli uomini d'affari empirici quando ci rivolgiamo agli economisti, i quali sono la coscienza e la esistenza scientifica di quelli). E lo prova:
1) riducendo il bisogno dell'operaio al più indispensabile e al più compassionevole sostentamento della vita fisica, e la sua attività al movimento meccanico più astratto, onde viene a dire che l'uomo non ha nessun altro bisogno né di attività né di godimento; e infatti riconosce anche ad una vita siffatta il carattere di vita umana e di esistenza umana;
2) adottando come criterio di misura la vita (o esistenza) la più miserabile che si possa immaginare, ed anzi come criterio generale perché deve valere per la massa degli uomini; egli fa dell'operaio un essere insensibile e senza bisogni, mentre riduce la sua attività ad una pura astrazione da ogni attività; ogni lusso dell'operaio gli appare quindi riprovevole, ed ogni cosa che va oltre al più astratto di tutti i bisogni - sia esso godimento passivo o manifestazione d'attività - gli appare come un lusso. L'economia politica, questa scienza della ricchezza, è quindi nello stesso tempo la scienza della rinuncia, della privazione, del risparmio, e giunge realmente sino al punto di risparmiare all'uomo persino il bisogno dell'aria pura 0 del moto fisico. Questa scienza della mirabile industria è parimenti la scienza dell'ascesi, e il suo vero ideale è l'avaro ascetico ma usuraio, e lo schiavo ascetico ma produttivo. Il suo ideale morale è l'operaio che porta alla cassa di risparmio una parte del suo salario; e per questa sua idea prediletta essa ha trovato persino un'arte servile. Tutto ciò è stato portato sulla scena in forma sentimentale. L'economia politica è quindi, nonostante il suo aspetto mondano e lussurioso, una scienza realmente morale, la più morale di tutte le scienze. La rinuncia a se stessi, la rinuncia alla vita e a tutti i bisogni umani, è il suo dogma principale. Quanto meno mangi, bevi, compri libri, vai a teatro, al ballo e all'osteria, quanto meno pensi, ami, fai teorie, canti, dipingi, verseggi, ecc., tanto più risparmi, tanto più grande diventa il tuo tesoro, che né i tarli né la polvere possono consumare, il tuo capitale. Quanto meno tu sei, quanto meno realizzi la tua vita, tanto più hai; quanto più grande è la tua vita alienata, tanto più accumuli del tuo essere estraniato. Tutto [XVI] ciò che l'economista ti porta via di vita e di umanità, te lo restituisce in denaro e ricchezza; e tutto ciò che tu non puoi, può il tuo denaro. Esso può mangiare, bere, andare a teatro e al ballo, se la intende con l'arte, con la cultura, con le curiosità storiche, col potere politico, può viaggiare; può insomma impadronirsi per te di tutto quanto; può tutto quanto comperare: esso è il vero e proprio potere. Ma pur essendo tutto questo, non è in grado di produrre null'altro che se stesso, né di comprare nulla fuor che se stesso, poiché tutto il resto è ormai suo schiavo; e se io ho il padrone ho pure il servo, e non ho bisogno del suo servo. Cosi tutte le passioni e tutte le attività devono andare a finire nell'avidità di denaro. L'operaio può avere soltanto quanto basta per voler vivere; e può voler vivere soltanto per avere.

Veramente sorge a questo punto una controversia sul terreno dell'economia politica. Gli uni (Lauderdale, Malthus, ecc.) raccomandano il lusso e imprecano contro il risparmio; gli altri (Say, Ricardo, ecc.) raccomandano il risparmio e imprecano contro il lusso. Ma quelli dichiarano di volere il lusso per produrre il lavoro (cioè il risparmio assoluto); questi affermano di raccomandare il risparmio per produrre la ricchezza, cioè il lusso. I primi hanno l'idea romantica che l'avidità di denaro non possa da sola determinare il consumo dei ricchi, e poi contraddicono alle loro proprie leggi quando spacciano la prodigalità immediatamente come un mezzo per arricchire; e perciò i secondi dimostrano loro con tutta serietà e coi maggiori particolari che con la prodigalità il mio avere diventa più piccolo e non più grande; ma costoro commettono l'ipocrisia di non ammettere che proprio i capricci e i ghiribizzi determinano la produzione; dimenticano i «bisogni raffinati», dimenticano che se non si consumasse non si produrrebbe, che la produzione per opera della concorrenza deve diventare soltanto più multiforme e più volta ai generi di lusso; dimenticano che per loro l'uso determina il valore delle cose, e la moda determina l'uso; desiderano che si produca soltanto ciò che è «utile», ma dimenticano che la produzione di troppe cose utili produce troppa popolazione inutile. Sia gli uni che gli altri dimenticano che la prodigalità e il risparmio, il lusso e l'indigenza, la ricchezza e la povertà sono l'identica cosa.
E tu devi non solo privarti dei tuoi sensi immediati, come il mangiare, ecc., ma devi risparmiarti anche ogni partecipazione ad interessi di carattere generale, la compassione, la fiducia; tutto quanto devi risparmiarti se vuoi essere un uomo economico, se non vuoi andare in rovina per le illusioni.
Tutto ciò che è tuo devi renderlo venale, cioè utile. Ma se io chiedo agli economisti: «Forse che non ubbidisco alle leggi economiche, se traggo profitto prostituendo e offrendo in vendita il mio corpo alla voluttà altrui (gli operai delle fabbriche in Francia chiamano la prostituzione delle loro mogli e delle loro figlie l'ora di lavoro straordinaria, il che è letteralmente vero); oppure non agisco forse economicamente vendendo un mio amico ai marocchini (la vendita diretta degli uomini, come il commercio dei coscritti, ecc., si verifica in tutti i paesi civili) ?» allora gli economisti mi rispondono: «Certamente tu non vai contro alle mie leggi; però, sta un po' attento a quel che dicono la signora morale e la signora religione. La mia morale e la mia religione fondate sull'economia politica non hanno nulla da opporti, ma...» Ma a chi mai io debbo più credere ? Alla economia politica o alla morale? La morale dell'economia è il guadagno, il lavoro, il risparmio, la sobrietà; ma l'economia politica mi promette di soddisfare i miei bisogni. L'economia della morale è la ricchezza in fatto di buona coscienza, di virtù, ecc.; ma come posso essere virtuoso se non sono, e come posso avere una buona coscienza, se non so nulla? Nella natura stessa dell'estraniazione è fondato il fatto che ogni sfera mi presenti un criterio di misura diverso ed opposto, uno la morale, un altro l'economia politica; e infatti ognuna di queste due sfere rappresenta un modo determinato di estraniazione umana e [XVII] fissa un ambito particolare di attività essenziale-estraniata; ognuna si riferisce in forma estraniata all'estraniazione dell'altra. Così Michel Chevalìer rimprovera Ricardo di fare astrazione dalla morale. Ma Ricardo fa parlare all'economia politica la lingua che le è propria, e se questa non parla in termini di morale, la colpa non è di Ricardo. Chevalier fa astrazione dall'economia nei limiti in cui fa il moralista; ma fa necessariamente e realmente astrazione dalla morale nei limiti in cui fa l'economista. La relazione tra l'economia politica e la morale, se non è arbitraria, accidentale, e quindi senza fondamento e priva di rigore scientifico, se non è travisata, ma intesa invece nel suo valore essenziale, può essere bensì soltanto la relazione tra le leggi economiche e la morale. Ma se questa relazione non ha luogo, ma anzi ha luogo il contrario, che colpa ne ha Ricardo ? Del resto, anche l'opposizione tra l'economia politica e la morale è soltanto un'apparenza, e in quanto opposizione, non è di nuovo un'opposizione. L'economia politica si limita ad esprimere alla sua maniera le leggi morali.
La mancanza di bisogni in quanto principio dell'economia politica si rivela nel modo più clamoroso nella sua teoria della popolazione. Ci sono troppi uomini. Persino l'esistenza degli uomini è un puro lusso, e se l'operaio è «morale», farà economia in fatto di procreazione. (Mill1 propone pubblici elogi per coloro che si mostrano continenti nei rapporti sessuali, e pubblici biasimi, invece, a coloro che peccano contro l'infecondità del matrimonio... Non è questa forse una morale dell'ascetismo?) La produzione di uomini appare come una pubblica calamità.
Il senso che la produzione ha relativamente ai ricchi, si mostra manifestamente nel senso che essa ha per i poveri; verso l'alto la sua manifestazione è sempre raffinata, dissimulata, ambigua, pura e semplice apparenza; verso il basso è grossolana, scoperta, leale, vera e propria realtà. Il bisogno rozzo dell'operaio è una fonte di guadagno assai maggiore che il bisogno raffinato del ricco. Le abitazioni nel sottosuolo di Londra rendono ai loro padroni più che i palazzi, cioè rappresentano per loro una ricchezza maggiore, e quindi per usare il linguaggio dell'economia politica, una maggior ricchezza sociale.
E cosi, come l'industria specula sul raffinamento dei bisogni, specula altrettanto sulla loro rozzezza: sulla loro rozzezza in quanto è prodotta ad arte, e di cui pertanto il vero godimento consiste nell'autostordimento, che è una soddisfazione del bisogno soltanto apparente, una forma di civiltà dentro la rozza barbarie del bisogno. Le bettole inglesi sono perciò una rappresentazione sim-bolica della proprietà privata. Il loro lusso mostra il vero rapporto del lusso e della ricchezza dell'industria con l'uomo. E sono quindi anche a ragione i soli divertimenti domenicali del popolo trattati per lo meno con mitezza dalla polizia inglese.


Abbiamo già visto come l'economista ponga l'unità di lavoro e capitale in diversi modi:

1) il capitale è lavoro accumulato;

2) la determinazione del capitale nell'ambito della produzione, in parte la riproduzione del capitale accompagnata da un guadagno, in parte il capitale come materia prima (il materiale del lavoro), in parte come strumento che lavora esso stesso - la macchina è il capitale identificato immediatamente col lavoro -, è lavoro produttivo;

3) l'operaio è un capitale;

4) il salario appartiene al costo del capitale;

5) in relazione all'operaio il lavoro è la riproduzione del suo capitale vivente;

6) in relazione al capitalista, è un momento dell'attività del suo capitale;

7) l'economista presuppone l'unità originaria di entrambi come unità del capitalista con l'operaio: è questo lo stato originario paradisiaco. Il modo con cui entrambi questi momenti [XIX] si scontrano come due persone, è per l'economista un fatto accidentale, che può essere quindi spiegato solo dall'esterno (vedi Mill2).


Le nazioni, che sono ancora accecate dallo splendore materiale dei metalli preziosi e quindi adorano ancora in forma feticistica la moneta metallica, non sono ancora nazioni capitalistiche compiute. Contrasto tra Francia e Inghilterra. Nel feticismo, per esempio, si vede come la soluzione di enigmi teorici sia un compito della pratica, e sia mediata praticamente, e come la vera pratica sia la condizione di una teoria reale e positiva. La coscienza sensibile del feticista è diversa da quella dei Greci, perché è diversa la sua stessa esistenza sensibile. L'astratta ostilità tra senso e spirito è necessaria, sino a che il senso umano per la natura, il senso umano della natura, e quindi anche il senso naturale dell'uomo non è ancora prodotto dal lavoro proprio dell'uomo.
L'uguaglianza non è altro che la traduzione in forma francese, cioè in forma politica, dell'identità tedesca di Io = Io. L'uguaglianza come fondamento del comunismo è la sua fondazione politica ed equivale al fondamento posto dal tedesco quando concepisce l'uomo come autocoscienza universale. S'intende che la soppressione della alienazione procede sempre da quella forma d'alienazione, che è la potenza dominante: in Germania l'autocoscienza, in Francia l'uguaglianza perché [la potenza dominante è] la politica, in Inghilterra il bisogno pratico reale, materiale, che si commisura soltanto a se stesso. Da questo punto di vista bisogna criticare e giustificare Proudhon.
Quando noi designiamo ancora il comunismo stesso - perché come negazione della negazione, come appropriazione dell'essere umano, che si media con se stesso attraverso la negazione della proprietà privata, e quindi ancora non come la vera posizione che prende inizio da se stessa, ma anzi prende inizio dalla proprietà privata,[...] al modo della vecchia Germania, al modo della Fenomenologia di Hegel..[...].. sia ormai condott[a] a termine come un momento superato e si..[...]..possa e possa tranquillizzarsi, nella sua coscienza..[...]..dell'essere umano solo attraverso la reale..[...].. soppress[ione]..[...].. del pensiero prima e poi..[...].. ad esso la reale estraniazione della vita umana rimane, ed un'estraniazione tanto più grave rimane quanto 1 piti si ha coscienza di essa come tale - se può essere com-piuta, può esserlo soltanto attraverso il comunismo posto in opera. Per sopprimere Vìdea della proprietà privata, basta completamente il comunismo ideale. Ma per sopprimere la proprietà privata reale, occorre un'azione comunistica reale. Questa azione sarà il prodotto della storia, e nella realtà dovrà passare attraverso un duro e lungo processo quel movimento di cui già sappiamo idealmente che si sopprime da se stesso. Ma dobbiamo considerare come un progresso reale il fatto che abbiamo acquistato sin da principio [coscienza] tanto della limitatezza quanto della meta del movimento storico, ed è una coscienza che sorpassa tale movimento.
Quando gli operai comunisti si riuniscono, essi hanno primamente come scopo la dottrina, la propaganda, ecc. Ma con ciò si appropriano insieme di un nuovo bisogno, del bisogno della società, e ciò che sembra un mezzo, è diventato scopo. Questo movimento pratico può essere osservato nei suoi risultati pivi luminosi, se si guarda ad una riunione di «ouvriers» socialisti francesi. Fumare, bere, mangiare, ecc., non sono più puri mezzi per stare uniti, mezzi di unione. A loro basta la società, l'unione, la conversazione che questa società ha a sua volta per iscopo; la fratellanza degli uomini non è presso di loro una frase, ma una verità, e la nobiltà dell'uomo s'irradia verso di noi da quei volti induriti dal lavoro.

[XX] Quando l'economia politica sostiene che la domanda e l'offerta si coprono sempre, dimentica immediatamente che in base ad un'altra sua stessa affermazione l'offerta di uomini (teoria della popolazione) supera sempre la domanda, e che quindi se si ha di mira il risultato essenziale dell'intera produzione - l'esistenza degli uomini - la sproporzione tra domanda ed offerta trova la sua espressione più risoluta.
In qual misura il denaro, che sembra un mezzo, sia la vera potenza e l'unico scopo, in qual misura in generale il mezzo che fa di me un essere, e appropria per me l'essere oggettivo altrui, sia a scopo a se stesso,... lo si può desumere dal fatto che la proprietà fondiaria, là dove la terra è la fonte della vita, o il cavallo e la spada, là dove cavallo e spada sono i veri mezzi di sussistenza, vengono pure riconosciuti come i veri poteri politici necessari alla vita. Nel Medioevo l'emancipazione di un ceto avviene quando è autorizzato a portare la spada. Nei popoli nomadi è il cavallo che mi rende libero e partecipe della comunità.
Abbiam detto sopra che l'uomo ritorna ad abitare le caverne, ecc., ma vi ritorna in una forma estraniata, ostile. Nella sua caverna, in questo elemento naturale che si offre spontaneamente al suo godimento e alla sua protezione, il selvaggio non si sente estraneo, e anzi vi si sente in casa sua come il pesce nell'acqua. Ma l'abitazione del sottosuolo, dove vive il povero, è un'abitazione ostile, «che si comporta come una potenza estranea, e gli si offre solo per quel tanto che egli offre ad essa il frutto del suo sudore di sangue»; egli non la può considerare come sua dimora ove possa finalmente dire: «Qui sono a casa mia»; anzi egli vi si trova nella casa di un altro, in una casa estranea, dove l'altro ogni giorno si apposta per metterlo alla porta se non paga l'affitto. Parimenti il povero apprende che la sua dimora è qualitativamente opposta alla dimora umana che ha sede nell'ai di là, nel cielo della ricchezza.
L'estraniazione si manifesta tanto nel fatto che i miei mezzi di sostentamento sono di un altro, ed è inaccessibile possesso di un altro ciò che costituisce il mio desiderio, quanto nel fatto che ogni cosa è qualcosa d'altro da se stessa, e la mia attività è anch'essa qualcosa d'altro, e che infine (e ciò vale anche per il capitalista) domina in generale la potenza disumana. La ricchezza3 destinata al solo godimento, la ricchezza inoperosa e sperperatrice, - dove colui che ne fruisce, da un lato, si realizza come un individuo meramente effimero, che si agita, vanamente, e parimenti considera il lavoro servile degli altri, l'umano sudore di sangue come preda delle sue cupidigie e in ciò considera l'uomo stesso, e quindi anche se stesso, come un essere insignificante, votato al sacrificio, - nel quale atteggiamento il disprezzo degli uomini si presenta come superbia, come dissipazione di ciò che potrebbe sostentare cento vite umane, e in parte come l'infame illusione che il lavoro e di conseguenza il sostentamento dell'altro siano condizionati dal suo sfrenato sperperare e dal suo consumo sregolato e improduttivo, onde costui [che fruisce della ricchezza inoperosa e sperperatrice] considera la realizzazione delle forze essenziali dell'uomo soltanto come realizzazione del proprio non-essere, del proprio capriccio, dei propri arbitrari e bizzarri ghiribizzi - questa ricchezza che però d'altra parte considera la ricchezza come un semplice mezzo e come cosa meritevole soltanto d'essere distrutta, e che quindi è ad un tempo la propria schiava e la propria signora, ad un tempo magnanima e abietta, capricciosa, presuntuosa, vanitosa, raffinata, educata, spirituale - questa ricchezza non ha ancora sperimentato su se stessa la ricchezza come una potenza completamente estranea; essa piuttosto vede in quella soltanto la propria potenza e [non] la ricchezza, ma il godimento..[...].. scopo finale ultimo. [A] questo..[...]..[XXI] e alla illusione sull'essenza della ricchezza - splendida illusione, accecata dall'apparenza dei sensi- si contrappone l'industriale che lavora, sobrio, economico, prosaico, l'industriale illuminato sull'essenza della ricchezza - e come questi procura alla sete di godimenti dell'altro [che fruisce della ricchezza inoperosa e sperperatrice] un campo più vasto, e gli rivolge belle lusinghe coi suoi prodotti - i suoi prodotti sono altrettanti bassi complimenti alle cupidigie dello sperperatore - cosi sa appropriarsi della potenza che a quegli sfugge nell'unica maniera utile. Ragion per cui, se la ricchezza industriale appare primamente come il risultato della ricchezza sperperatrice, capricciosa, il movimento della prima scaccia anche in modo attivo, attraverso il proprio movimento, la seconda. La caduta dell'interesse del denaro è infatti una conseguenza ed un risultato necessario del movimento industriale. I mezzi del «rentier» sperperatore diminuiscono dunque giornalmente in proporzione inversa all'aumento dei mezzi e delle insidie del godimento. In conseguenza di ciò egli deve o consumare il proprio capitale e quindi andare in rovina o diventare egli stesso un capitalista industriale... D'altra parte, è vero che la rendita fondiaria cresce immediatamente e in modo costante lungo il corso del movimento industriale, ma, come abbiamo già visto, giunge necessariamente un momento in cui la proprietà fondiaria, come ogni altra proprietà, deve andare a finire nella categoria del capitale che si riproduce con profitto, e certamente questo è il risultato dello stesso movimento industriale. Così, anche il proprietario fondiario sperperatore deve, o consumare il proprio capitale e quindi andare in rovina, oppure diventare l'affittuario del suo proprio fondo, cioè un industriale agricolo.
La diminuzione dell'interesse del denaro, che Proudhon considera come soppressione del capitale e come tendenza alla socializzazione del capitale, è quindi se mai soltanto un sintomo immediato della completa vittoria del capitale che lavora sulla ricchezza che sperpera, cioè la trasformazione di ogni proprietà privata in capitale industriale - la completa vittoria della proprietà privata sulle sue qualità apparentemente ancora umane e il completo asservimento del proprietario privato all'essenza della proprietà privata, il lavoro. Certamente, anche il capitalista industriale ha un godimento. Egli non ritorna per nulla alla semplicità innaturale del bisogno, ma il suo godimento è soltanto una cosa accessoria, una specie di svago, subordinato alla produzione: si tratta di un godimento calcolato e per ciò stesso economico, dal momento che egli computa il suo godimento nelle spese del capitale, e quindi egli può spendere per il suo godimento sino al limite in cui ciò che è stato speso per esso venga poi rimpiazzato dalla riproduzione del capitale con un profitto. Così il godimento è sussunto nel capitale, l'individuo che gode del suo capitale nell'individuo che capitalizza, mentre nel caso precedente accadeva il contrario. La diminuzione degli interessi è quindi un sintomo della soppressione del capitale solo per quel tanto che essa è insieme un sintomo del suo dominio in via di compimento e quindi un sintomo dell'estraniazione che sta per giungere anch'essa al proprio compimento e si avvia rapidamente alla propria soppressione. Ed è questo in generale l'unico modo in cui ciò che sussiste di fatto conferma il suo contrario.
La contesa degli economisti sul lusso e sul risparmio non è altro quindi che la contesa tra l'economia politica, che ha raggiunto la chiarezza sull'essenza della ricchezza, e la giovane economia, ancora impigliata in reminiscenze romantiche e antindustriali. Peraltro, l'una e l'altra non sanno condurre l'oggetto della controversia alla sua espressione semplice, e quindi nessuna delle due riesce a farla finita con l'altra.

La rendita fondiaria fu inoltre abbattuta in quanto rendita fondiaria allorché l'economia politica moderna, in opposizione alla tesi dei fisiocrati secondo cui l'unico vero produttore è il proprietario fondiario, riuscì piuttosto a dimostrare che il proprietario fondiario come tale è l'unico «rentier» del tutto improduttivo, e che l'agricoltura è un affare proprio del capitalista che dà al suo capitale questo impiego, quando da questo impiego possa attendersi il profitto ordinario. Così, la tesi dei fisiocrati - secondo cui la proprietà fondiaria, in quanto è l'unica proprietà produttiva, è anche la sola che deve pagare le pubbliche imposte, e quindi anche la sola che deve approvarle e prendere parte allo stato - si converte nella proposizione contraria, secondo cui l'imposta sulla rendita fondiaria è la sola imposta che grava su un'entrata improduttiva, e quindi anche la sola che non rechi pregiudizio alla produzione nazionale. Va da sé che, intesa cosi la cosa, anche il privilegio politico dei proprietari fondiari non discende più dal fatto che essi siano i contribuenti principali.
Tutto ciò che Proudhon intende come movimento del lavoro contro il capitale non è altro che il movimento del lavoro nella determinazione del capitale, del capitale industriale contro il capitale che non si consuma come capitale, cioè che non si consuma industrialmente. E questo movimento percorre il suo cammino vittorioso, cioè il cammino della vittoria del capitale industriale. Così si vede che solo in quanto il lavoro è inteso come l'essenza della proprietà privata, anche il movimento economico come tale può essere colto nella sua determinatezza reale.
La società, quale appare all'economista, è la società civile, in cui ogni individuo è un insieme di bisogni, ed è per l'altro, cosi come l'altro è per lui, soltanto nella misura in cui diventano reciprocamente mezzi l'uno dell'altro. L'economista, cosi come la politica coi suoi diritti dell'uomo, riduce tutto all'uomo, cioè all'individuo a cui strappa ogni determinatezza, per classificarlo come capitalista o come lavoratore.
La divisione del lavoro è l'espressione, propria della economia politica, della socialità del lavoro entro i limiti dell'estraniazione. O, in altre parole, siccome il lavoro non è altro che l'espressione dell'attività umana entro i limiti dell'alienazione, della estrinsecazione della vita come alienazione della vita, anche la divisione del lavoro non è altro che la posizione estraniata, alienata, dell'attività umana come attività generica reale o come attività dell'uomo in quanto essere generico.
Gli economisti sono molto oscuri e contraddittori quando trattano della essenza della divisione del lavoro, che doveva naturalmente essere intesa come uno dei motori principali della produzione della ricchezza non appena si fosse riconosciuto nel lavoro l'essenza della proprietà privata, cioè quando trattano di questa forma estraniata ed alienata dell'attività umana considerata come attività generica.
Adam Smith:

«La divisione del lavoro non deve la sua origine all'intelligenza dell'uomo. E la conseguenza necessaria, lenta, graduale della tendenza al commercio e allo scambio reciproco dei prodotti. Questa tendenza al commercio è verosimilmente una conseguenza necessaria dell'uso della ragione e della parola. Comune a tutti gli uomini, non si trova negli animali. L'animale, diventato adulto, vive coi propri mezzi. L'uomo ha bisogno continuamente del sostegno degli altri e se lo attendesse unicamente dal beneplacito degli altri lo attenderebbe invano. Sarà molto più sicuro rivolgersi al loro interesse personale, e persuaderli che il loro stesso vantaggio personale richiede che essi facciano ciò che egli desidera da loro. Negli altri uomini ci rivolgiamo non alla loro umanità, ma al loro egoismo; a loro non parliamo mai dei nostri bisogni, ma sempre del loro vantaggio. Poiché dunque ci procuriamo la maggior parte dei servizi, che ci sono reciprocamente necessari, con lo scambio, il commercio, il baratto, è proprio questa disposizione al baratto che sta all'origine della divisione del lavoro. Per esempio, in una tribù di cacciatori o di pastori c'è qualcuno che costruisce archi e corde più rapidamente e più abilmente di un altro. Egli offre sovente al suo compagno tale forma di opere in cambio di animali domestici e selvaggi; e si accorge ben presto che con questo mezzo si può procurare questi ultimi assai più facilmente che se andasse a caccia egli stesso. Così in base ad un calcolo interessato egli fa della fabbricazione di archi la sua occupazione principale. La differenza delle doti naturali tra gli individui non è tanto la causa quanto l'effetto della divisione del lavoro. Senza questa disposizione degli uomini allo scambio e al commercio, ciascuno sarebbe obbligato a procurarsi da sé tutto ciò che gli occorre o gli fa comodo nella vita. Ciascuno avrebbe dovuto svolgere ogni giorno lo stesso lavoro e non avrebbe avuto luogo quella gran diversità di occupazioni che sola può produrre una gran diversità di doti. Come questa tendenza allo scambio produce la diversità delle doti tra gli uomini, così è pure questa stessa tendenza che fa diventare utile questa diversità. Molte razze animali, per quanto della stessa specie, hanno ricevuto dalla natura caratteri distintivi, che sono, riguardo alle loro disposizioni, più evidenti di quel che accada di osservare negli uomini allo stato naturale. Secondo natura un filosofo non è tanto diverso in doti naturali e in intelligenza da un facchino, quanto un mastino da un levriero, un levriero da un bracco, un bracco da un can da pastore. Eppure tutte queste diverse razze, per quanto della stessa specie, non sono pressoché di nessuna utilità le une per le altre. Il mastino non aggiunge nulla ai vantaggi della propria forza [XXXVI], per il fatto che si possa servire, per esempio, della velocità del levriero, ecc. Gli effetti di queste diverse doti o gradi d'intelligenza non possono essere messi in comune per mancanza della capacità e della tendenza al commercio e. allo scambio, e quindi non possono in alcun modo contribuire a procurare un qualche vantaggio o una maggiore comodità comune alla specie. Ogni animale deve sostenersi e proteggersi da sé, indipendentemente dagli altri; né può trarre il minimo utile dalla diversità delle doti che la natura ha distribuito tra i suoi simili. Invece, tra gli uomini, le doti più disparate si avvantaggiano le une dalle altre, perché i diversi prodotti di ogni rispettivo ramo dell'industria a causa di questa tendenza generale al commercio e allo scambio si trovano per cosi dire riuniti in una massa comune, dove ogni uomo può andare ad acquistare secondo i suoi bisogni una qualche parte del prodotto dell'industria dell'altro. Siccome questa tendenza allo scambio sta all'origine della divisione del lavoro, ne segue che l'accrescimento di questa divisione è sempre limitato dall'estendersi della capacità di scambiare o in altre parole dall' estendersi del mercato. Se il mercato è molto piccolo, nessuno oserà dedicarsi interamente ad un'unica occupazione nel timore di non poter scambiare l'eccedenza del prodotto del proprio lavoro sul suo consumo contro l'uguale eccedenza del prodotto del lavoro di un altro, che egli desidererebbe procurarsi... »

In una fase più avanzata: «Ogni uomo vive di scambi, e diventa una specie di commerciante, e la società stessa è propriamente parlando una società commerciale» (vedi Destutt de Tracy4: la società è una serie di scambi reciproci, nel commercio risiede tutta intera l'essenza della società). «L'accumulazione dei capitali cresce con la divisione del lavoro e viceversa».

Così ADAM SMITH5:
«Se ogni famiglia producesse la totalità delle cose occorrenti al suo consumo, la società potrebbe continuare a sussistere, per quanto non mettesse in atto nessuna specie di scambio; senza essere fondamentale lo scambio è indispensabile nella fase avanzata della nostra società. La divisione del lavoro è un abile impiego delle forze del-l'uomo; essa quindi aumenta i prodotti della società, il suo potere e i suoi godimenti, ma deruba l'uomo individualmente preso delle sue capacità, e gliele diminuisce. La produzione non può aver luogo senza scambio».

Così J.-B. SAY6:
«Le forze inerenti all'uomo sono l'intelligenza e la disposizione fisica al lavoro. Quelle che traggono la loro origine dallo stato sociale dell'uomo consistono: nella ca pacità di dividere il lavoro e di distribuire i diversi lavori tra i diversi uomini... e nella facoltà di scambiare reciprocamente i servizi e i prodotti che tali mezzi costituiscono. Il motivo per cui un uomo dedica all'altro il proprio servizio, è l'egoismo: l'uomo pretende di avere una ricompensa per i servizi resi agli altri. Il diritto della proprietà privata esclusiva è indispensabile perché si possa stabilire tra gli uomini lo scambio». «Lo scambio e la divisione del lavoro si condizionano a vicenda». Così SKARBEK7.

Per Mill lo scambio intensificato, cioè il commercio, è la conseguenza della divisione del lavoro.
«L'attività dell'uomo può essere ridotta ad elementi semplicissimi. L'uomo non può in verità fare altro che produrre del movimento, può muovere le cose per allontanarle le une dalle altre [XXXVII] o per avvicinarle le une alle altre; le proprietà della materia fanno il resto. Nell'impiego del lavoro e delle macchine si trova spesso che il rendimento può essere aumentato con un'abile distribuzione, con la separazione delle operazioni che si contrappongono, e con la riunione di tutte quelle che in qualche modo si integrano l'una con l'altra. Siccome in generale gli uomini non possono eseguire molte operazioni diverse con uguale rapidità e abilità, essendo che l'abitudine procura loro questa capacità per l'esecuzione di un più piccolo numero soltanto di quelle operazioni, è sempre vantaggioso restringere quanto più è possibile il numero delle operazioni affidate a ciascun individuo. Per dividere il lavoro e per distribuire le forze degli uomini e delle macchine nel modo più proficuo è necessario operare in una gran quantità di casi, su larga scala, in altre parole è necessario produrre la ricchezza in grandi quantità. Questo vantaggio è il motivo determinante delle grandi industrie, delle quali spesso un piccolo numero, creato in condizioni favorevoli, rifornisce non un solo ma parecchi paesi di oggetti da essa prodotti nella quantità richiesta».
Così MILL8.
Ma tutta l'economia politica moderna concorda su questo punto che divisione del lavoro e ricchezza della produzione, divisione del lavoro e accumulazione del capitale si condizionano a vicenda, come anche su quest'altro punto che solo la proprietà privata affrancata e affidata a se stessa può produrre la più utile e la più estesa divisione del lavoro.
L'esposizione dello Smith si può riassumere nel modo seguente: la divisione del lavoro conferisce al lavoro una i capacità infinita di produzione. Essa è fondata sulla tendenza al commercio e allo scambio che è una tendenza specifica dell'uomo, verosimilmente non accidentale ma condizionata dall'uso della ragione e del linguaggio. Il movente di colui che opera lo scambio non è l'umanità, ma l'egoismo. La diversità delle doti umane è più l'effetto che la causa della divisione del lavoro, cioè dello scambio, perché è solo quest'ultimo che fa diventare utile quella diversità. Le caratteristiche particolari delle diverse razze di una specie animale sono per natura più accentuate della diversità delle disposizioni e dell'attività degli uomini. Ma siccome gli animali non sono in grado di fare degli scambi, a un individuo animale non giova la caratteristica diversa di un individuo della stessa specie ma di razza differente. Gli animali non sono in grado di
mettere in comune le caratteristiche diverse della loro specie; né contribuire in nulla ai vantaggi e alle comodità comuni della loro specie. Altrimenti accade agli uomini, tra cui le doti e le forme di attività più disparate si avvantaggiano reciprocamente, perché essi possono raccogliere i loro diversi prodotti in una massa comune, da cui ciascuno può trarre i suoi acquisti. La divisione del lavoro come sorge dalla tendenza allo scambio, cosi cresce ed è limitata dall' estensione dello scambio, del mercato. In una fase più avanzata ogni uomo si trasforma in commerciante, e la società in una società commerciate. Say considera lo scambio come accidentale e non come fondamentale. La società potrebbe sussistere anche senza di esso. Diventa indispensabile nella fase avanzata della società. Tuttavia la produzione senza di esso non può aver luogo. La divisione del lavoro è un mezzo comodo e utile, un abile impiego delle forze umane in favore della ricchezza sociale, ma diminuisce la capacità di ogni uomo individualmente preso. Quest'ultima osservazione è un progresso compiuto da Say.
Skarbek distingue le forze individuali, inerenti all'uomo, come l'intelligenza e la disposizione fisica al lavoro, dalle forze derivate dalla società, come lo scambio e la divisione del lavoro che si condizionano a vicenda. Ma il presupposto necessario dello scambio è la proprietà privata. Skarbek esprime qui in forma oggettiva ciò che Smith, Say, Ricardo, ecc., dicono quando indicano nel-l' egoismo, nell' interesse privato il fondamento dello scambio, o nel baratto la forma essenziale e adeguata dello scambio.
Mill considera il commercio come conseguenza della divisione del lavoro. L'attività umana si riduce per lui ad un movimento meccanico. La divisione del lavoro e l'impiego di macchine favoriscono l'abbondanza della produzione. Bisogna affidare ad ogni uomo la più piccola possibile sfera di operazioni. Da parte loro la divisione del lavoro e l'impiego di macchine condizionano la produzione in massa della ricchezza, e quindi del prodotto. Qui sta il fondamento delle grandi industrie.
[XXXVIII] Lo studio della divisione del lavoro e dello scambio è di grande interesse, perché l'una e l'altro costituiscono le espressioni visibilmente alienate dell'at-tività e della forza essenziale dell'uomo come attività e forza essenziale proprie del genere umano.
L'affermazione che la divisione del lavoro e lo scambio riposano sulla proprietà privata non è altro che l'affermazione che il lavoro è l'essenza della proprietà privata: ed è un'affermazione che l'economista non può dimostrare, e che noi vogliamo provare per lui. Proprio nel fatto che la divisione del lavoro e lo scambio appartengono alla struttura della proprietà privata, proprio qui risiede la duplice prova tanto del fatto che la vita umana ha avuto bisogno per realizzarsi della proprietà privata, quanto dell'altro fatto che ora essa ha bisogno della soppressione della proprietà privata.
La divisione del lavoro e lo scambio sono i due fenomeni, in base ai quali l'economista vanta il carattere sociale della propria scienza e nello stesso istante manifesta inconsapevolmente la contraddizione in cui questa scienza si avviluppa, consistente nel fondare la società su interessi particolari che non hanno nulla di sociale.
I momenti che abbiamo da considerare sono i seguenti: in primo luogo la tendenza allo scambio; il cui motivo è stato trovato nell'egoismo, viene presa in considerazione come il motivo o l'azione reciproca della divisione del lavoro. Say considera lo scambio come non fondamentale per l'essenza della società. La ricchezza, la produzione, vengono spiegate con la divisione del lavoro e con lo scambio. Si ammette che l'impoverimento e lo snaturamento dell'attività individuale siano una conseguenza della divisione del lavoro. Si riconosce che lo| scambio e la divisione del lavoro sono i fattori della grande varietà delle doti umane, e che questa varietà ritorna a diventare utile per opera degli stessi fattori. Skarbek divide le forze della produzione o forze produttive essenziali dell'uomo in due parti: I) forze individuali, inerenti all'uomo, cioè l'intelligenza e la disposizione o capacità specifica al lavoro; 2) le forze derivate dalla società, e non dall'individuo reale, cioè la divisione del lavoro e lo scambio. Inoltre la divisione del lavoro è limitata dal mercato. Il lavoro umano è un movimento meccanico semplice; la parte principale è compiuta dalle caratteristiche materiali degli oggetti. Ad un individuo devono essere attribuite le minori operazioni possibili. Divisione del lavoro e concentrazione del capitale, la vanità della produzione individuale e la produzione in massa della ricchezza. La comprensione della libera proprietà privata nella divisione del lavoro.

 

 

 

NOTE

1. JAMES MILL, Eléments d'économie politique, traduits de l'anglais par J. T. Parisot, Paris 1823, pp. 10 sgg.

2. MILL, op. cit., pp. 59 sgg.

3. Qui ho modificato lievemente il testo per rendere meno ostico al lettore questo lungo periodo incompiuto. Il periodo ha per soggetto iniziale «La destinazione della ricchezza»; ma siccome questo soggetto è nei periodi successivi sostituito dal soggetto del periodo che è «la ricchezza», ha creduto di dover sostituire il soggetto reale al soggetto grammaticale anche nel periodo iniziale.

4. DESTUTT DE TRACY, Éléments d'Idéologie. Tratte de la volonté et de ses effetes, Paris 1826, pp. 68, 78

5. SMITH, op. cit., t. I, pp. 29 sgg., 32 sgg., 36 sgg., 46.

6. SAY, op. cit., t. I, pp. 300, 76 sg.

7. F. Skarbek, Théorie des richesses sociales, suivie d'une bibliographie de l'économie potitique, Paris 1829, t. I, pp. 25 sgg

8. MILL, op. cit., pp. 7 sgg., pp. 11 sg.


Ultima modifica 05.01.2008