La Questione delle Abitazioni

Terza Parte: Appendice su Proudhon e il problema della casa

 

I

Nel numero 86 del Volksstaat il signor A. Mülberger si dà a conoscere come autore dell'articolo da me criticato nei numeri 51 e seguenti di questo foglio. Nella sua replica egli mi ricopre di una tale serie di rimproveri, svisando a tal punto tutte le questioni di cui si tratta, che, bene o male, sono costretto a replicare a mia volta. A questa replica, che con mio rincrescimento deve svolgersi in massima parte sul terreno della polemica personale impostami dal Mülberger, tenterò di conferire un interesse generale, sviluppando ancora una volta, e possibilmente in modo più chiaro di prima, i punti di maggiore importanza, anche a rischio che il Mülberger mi rinfacci un'ennesima volta che tutto questo "in sostanza non contiene nulla di nuovo, né per lui né per gli altri lettori del Volksstaat".

Il Mülberger si lamenta della forma e dei contenuti della mia critica. Per quanto riguarda la forma, è sufficiente obiettare che a quel tempo io non sapevo affatto da chi provenissero gli articoli in questione. Non si poteva parlare, quindi, di una "prevenzione" personale contro il loro autore; contro la soluzione che in quegli articoli si proponeva della questione delle abitazioni, concedo di essere stato "prevenuto" in quanto mi era nota da tempo attraverso la lettura di Proudhon, ed erano ben salde le mie opinioni in proposito.

Quanto al "tono" della mia critica, non intendo polemizzare con l'amico Mülberger. Quando si è stati nel movimento così a lungo come ci sono stato io, ci si fa la pelle abbastanza dura contro attacchi di ogni sorta e si presuppone quindi lo stesso anche negli altri. Per risarcire Mülberger, questa volta cercherò di mettere "il mio tono" in un giusto rapporto con la sensibilità dell'epidermide del mio avversario.

Il Mülberger lamenta con particolare amarezza che io l'abbia chiamato un "proudhoniano" e protesta di non esserlo. Naturalmente devo credergli, ma devo altresì dimostrare che gli articoli in questione - e solo di essi devo occuparmi - non contengono altro che mero proudhonismo.

Ma, secondo Mülberger, anche Proudhon, io lo critico con "leggerezza", facendogli grave torto:

"Da noi in Germania la dottrina del piccolo borghese Proudhon è divenuto un dogma inconcusso, al punto che molti lo predicano senza aver letto un rigo di lui".

Io deploro che gli operai di lingua neolatina da vent'anni non hanno altro nutrimento intellettuale che le opere di Proudhon, ed ecco che Mülberger mi risponde che fra gli operai neolatini "i principi, i quali li ha formulati Proudhon, costituiscono quasi dovunque l'anima propulsiva del movimento". Questo, io devo negarlo. In primo luogo l'"anima propulsiva" del movimento operaio non ha sede alcuna nei "principi", bensì ovunque, nello sviluppo della grande industria e dei suoi effetti, dell'accumulazione e della concentrazione del capitale da una parte e del proletariato dall'altra. In secondo luogo, non è vero che i cosiddetti "principi" proudhoniani abbiano presso i neolatini quel ruolo decisivo che gli attribuisce Mülberger; né che "i principi dell'anarchia, dell'organisation des forces économiques, della liquidation sociale, ecc. Siano colà (...) diventati dei veri e propri elementi portanti del movimento rivoluzionario". Per non parlare affatto della Spagna e dell'Italia, dove i rimedi universali proudhoniani hanno acquisito una certa capacità d'influire solo nelle raffazzonature messe insieme da Bakunin; per chiunque conosca il movimento operaio internazionale, è un fatto notorio che in Francia i proudhoniani costituiscono una setta poco numerosa, mentre le masse degli operai non vogliono saperne nulla del programma di rivolta sociale abbozzato da Proudhon col titolo di liquidation sociale e organisation économique. Lo si è visto, fra l'altro, con la Comune. Benché i proudhoniani vi fossero rappresentati nutritamente, non fu compiuto il sia pur minimo tentativo di liquidare la vecchia società o di organizzare le forze economiche secondo le proposte di Proudhon. Al contrario. Torna al massimo a onore della Comune che in tutte le sue misure economiche l'"anima propulsiva" non sia stata costituita da alcun principio, bensì dal puro e semplice bisogno pratico. E pertanto quelle misure - per l'abolizione del lavoro notturno dei panettieri, la proibizione delle multe nelle fabbriche, la confisca di fabbriche ed officine inattive e la loro consegna ad associazioni operaie - furono intese secondo la mente non di Proudhon, bensì del socialismo scientifico tedesco. L'unica misura sociale che i proudhoniani riuscirono ad imporre fu quella di non mettere sotto sequestro la Banca di Francia, e in parte fu questa la causa per cui cadde la Comune. Parimenti, i cosiddetti blanquisti, non appena compirono il tentativo di trasformarsi da rivoluzionari puramente politici in un gruppo socialista di lavoratori con un programma ben determinato (come è avvenuto dei profughi blanquisti a Londra con il loro manifesto Internationale et révolution) non hanno proclamato i "principi" del programma proudhoniano di rigenerazione sociale, bensì, e quasi alla lettera, le condizioni del socialismo scientifico tedesco circa la necessità dell'azione politica del proletariato e della sua dittatura come via di transizione all'abolizione delle classi e, con esse, dello Stato, quali erano state espresse nel "manifesto comunista" e, d'allora in poi, innumerevoli altre volte. Proprio dal disprezzo che i tedeschi hanno per Proudhon il Mülberger desume che essi avrebbero scarsamente compreso il movimento nei paesi neolatini "fino alla Comune di Parigi"; ebbene, a prova di questo difetto potrebbe citare quello scritto in lingue neolatine che, solo per approssimazione, contiene una comprensione e una descrizione così giusta della Comune, quell'Indirizzo del Consiglio dell'Associazione Internazionale dei Lavoratori sulla guerra civile in Francia, scritta dallo stesso Marx.

L'unico paese i cui il movimento operaio sia direttamente soggetto all'influenza dei "principi " proudhoniani è il Belgio, e, proprio per questo, come direbbe Hegel, il movimento belga va "dal nulla attraverso il nulla al nulla".

Nel ritenere una sciagura il fatto che gli operai nei paesi neolatini, direttamente o indirettamente, da vent'anni si nutrono intellettualmente del solo Proudhon, la scorgo non tanto nel predominio affatto mistico della ricetta di riforma proudhoniana (quella che Mülberger denomina "principi"), bensì nel fatto che la loro critica economica della società esistente è stata lanciata dagli slogan del tutto erronei di Proudhon e la loro azione politica è stata corrotta dall'influsso proudhoniano. Ci si chiederà, quindi, se gli operai proudhonizzati dei paesi neolatini o i tedeschi, che comunque comprendono il socialismo scientifico tedesco infinitamente meglio di quanto i neolatini comprendano il loro Proudhon, "siano più addentro nella rivoluzione"; a questo interrogativo potremo rispondere solo se prima sappiamo che cosa significhi "stare (addentro) nel cristianesimo, nella vera fede, nella grazia di Dio" e via dicendo. Ma "stanno addentro" nella rivoluzione, nel movimento violento? "La rivoluzione" è forse una religione dogmatica a cui si debba credere?

Più oltre il Mülberger mi rimprovera d'aver affermato, in contrasto con quanto egli dice esplicitamente, che egli dichiara quella delle abitazioni una questione esclusivamente operaia.

Questa volta il Mülberger ha davvero ragione. Mi era sfuggito il passo in questione. E mi era sfuggito imperdonabilmente, poiché è uno dei più significativi di tutta la tendenza a cui obbedisce la trattazione. Dice, infatti, asciuttamente il Mülberger:

"Poiché così spesso ci si muove il ridicolo appunto di fare una politica di classe, di puntare ad un predominio di classe e simili, ribadiamo anzitutto ed esplicitamente che la questione della casa non riguarda affatto in modo esclusivo il proletariato, ma che al contrario interessa in misura del tutto preminente il vero e proprio ceto medio, la piccola industria, la piccola borghesia, l'intera burocrazia (...) La questione della casa è proprio quel punto delle riforme sociali che più di tutte gli altri sembra idoneo a rivelare l'assoluta identità interna degli interessi del proletariato da una parte e delle vere classi medie della società dall'altra. Le classi medie soffrono altrettanto, forse ancora di più, del proletariato sotto le oppressive catene della casa d'affitto (...) Oggi le vere classi medie della società si trovano dinanzi a questo interrogativo: se (...) avranno la forza (...) d'intervenire, alleate con il giovane e vigoroso partito dei lavoratori, nel processo di rivolgimento della società, i cui benefici tornerebbero proprio a loro vantaggio in primo luogo".

L'amico Mülberger fa dunque le constatazioni seguenti:

1) "Noi" non facciamo una "politica di classe" e non puntiamo ad un "predominio di classe". Ma il Partito Socialdemocratico Tedesco dei Lavoratori, proprio perché e un partito dei lavoratori, fa necessariamente una "politica di classe", la politica della classe lavoratrice. Poiché ogni partito politico si prefigge di conquistare il potere dello Stato, il Partito Socialdemocratico Tedesco dei Lavoratori tende necessariamente verso il suo potere, il dominio della classe lavoratrice, cioè un "dominio di classe". Del resto ogni vero partito proletario, dai cartisti inglesi in poi [21], si è sempre prefisso la politica di classe, l'organizzazione del proletariato quale partito politico autonomo come prima condizione, e la dittatura del proletariato come fine immediato della lotta. Dichiarando "ridicolo" tutto questo, Mülberger si pone al di fuori del movimento operaio e all'interno del socialismo piccolo-borghese.

2) La questione delle abitazioni ha il vantaggio di non essere una questione esclusiva degli operai, ma d'"interessare in modo del tutto preminente" la piccola borghesia, giacché le "vere classi medie" soffrono per essa "altrettanto, e forse ancor più" del proletariato. Quando uno dichiara che la piccola borghesia, sia pure per un unico aspetto, soffre "forse ancora di più del proletariato", è certo che non deve poi lamentarsi se lo si annovera tra i socialisti piccolo-borghesi. Mülberger ha dunque ragione ad essere malcontento allorché io affermo:

"È di queste pene comuni alla classe operaia e alle altre, segnatamente alla piccola borghesia, che si occupa di preferenza il socialismo piccolo-borghese, al quale appartiene anche Proudhon. Non è quindi un caso che il nostro proudhoniano tedesco si sia impadronito soprattutto della questione della casa che, come s'è visto, non è affatto esclusiva degli operai, e che, al contrario, egli la indichi come una vera ed esclusiva questione operaia".

3) Fra gli interessi delle "vere classi medie della società" e quelli del proletariato sussiste un'"assoluta identità intrinseca" e non è il proletariato, bensì le "vere classi medie" quelle al cui "vantaggio torneranno in primo luogo" i "benefici" dell'imminente processo di sovvertimento della società.

I lavoratori, dunque, faranno l'imminente rivoluzione sociale "in primo luogo" nell'interesse dei piccolo-borghesi. Non solo, ma esiste un'assoluta identità intrinseca fra gli interessi dei piccolo-borghesi e quelli del proletariato. Se gli interessi dei piccolo-borghesi sono intrinsecamente identici a quelli dei lavoratori, anche quelli di questi ultimi lo sono agli interessi dei piccolo-borghesi. Nell'ambito del movimento, quindi, il punto di vista piccolo-borghese è altrettanto giustificato del proletario. Orbene, l'affermazione di questa parità è proprio quello che si chiama "socialismo piccolo-borghese".

È quindi del tutto consequenziale che a pagina 25 dell'opuscolo [22] il Mülberger esalti "la piccola industria" come l'"autentico pilastro della società", "poiché, secondo la sua autentica disposizione, riunisce in sé i tre fattori: lavoro, guadagno, proprietà; e poiché, nel riunire questi tre fattori, non pone limite di sorta alla possibilità di sviluppo dell'individuo"; e che rimproveri l'industria moderna soprattutto di aver annientato questo vivaio di uomini normali e "di aver fatto di una classe vitale, continuamente riproducentesi, una ciurmaglia incosciente che non sa dove volgere il suo sguardo angosciato". Per Mülberger, dunque, il piccolo-borghese è l'uomo modello, e la piccola industria il modo di produzione modello. L'ho dunque calunniato cacciandolo fra i socialisti piccolo-borghesi?

Dato che Mülberger declina ogni solidarietà con Proudhon, sarebbe superfluo in questa sede dissertare ulteriormente sul come i programmi proudhoniani di riforma mirino a tramutare tutti i membri della società in piccoli borghesi e in piccoli proprietari terrieri. Tanto meno è necessario entrare in merito alla presunta identità fra gli interessi dei piccolo-borghesi e quelli degli operai. Quel che va detto a proposito si trova già nel "manifesto comunista".

Il risultato della nostra indagine è dunque questo: che alla "leggenda del piccolo-borghese Proudhon" si affianca la realtà del piccolo-borghese Mülberger.

II

Veniamo ora al punto principale. Nel criticare gli articoli di Mülberger ho affermato che, alla maniera di Proudhon, vi si falsano i rapporti economici traducendoli in espressioni giuridiche. Quale esempio a questo proposito avevo addotto il seguente passo del nostro autore:

"Una volta costruita, la casa serve come titolo perenne di diritto a una determinata frazione del lavoro sociale, anche qualora già da tempo in valore reale della casa sia pagato in misura più che sufficiente al proprietario sotto forma di canone d'affitto. Avviene quindi che una casa, fabbricata ad esempio cinquant'anni fa, durante questo tempo abbia coperto con i proventi delle sue pigioni il prezzo di costo originario due, tre, cinque, dieci volte".

Ed ecco come si lamenterà il Mülberger:

"Questa semplice, sobria constatazione di un fatto induce Engels a deplorare vivamente il mio non aver spiegato come la casa diventi "titolo giuridico": qualcosa che era del tutto estraneo alla sfera del mio compito (...) Altro è una descrizione, altro una spiegazione. Quando, con Proudhon, dico che la vita economica della società dovrebbe essere compenetrata da una idea del diritto, con questo descrivo quella odierna come una società in cui manchi non una qualsiasi idea giuridica, bensì l'idea giuridica della rivoluzione: un fatto, questo, che ammetterà lo stesso Engels".

Fermiamoci, per un momento, a considerare la casa ormai costruita. Una volta affittata, essa frutta al costruttore rendita fondiaria, spese di riparazione e interesse sul capitale investito nella costruzione, insieme al profitto che ne trae sotto forma di canone d'affitto e, a seconda dei casi, quest'ultimo, pagato via via, può ammontare a due, tre, cinque, dieci volte il prezzo di costo originario. Questa, amico Mülberger, è la "semplice, sobria constatazione" del "fatto", che è un fatto economico; e se vogliamo sapere come esso "avvenga", dobbiamo concludere la nostra indagine sul terreno economico. Guardiamo dunque il fatto un po' più da vicino, perché non vi sia più nessuno che lo fraintenda. La vendita d'una merce consiste, com'è noto, nel fatto che il proprietario ne cede il valore d'uso e ne intasca il valore di scambio. I valori d'uso delle merci si distinguono, fra l'altro, anche per il fatto che il loro consumo esige lassi di tempo diversi a seconda dei casi. Una pagnotta viene consumata in un giorno, un paio di scarpe in un anno, una casa, direi, in cent'anni. Per le merci di natura più lunga subentra quindi la possibilità di vendere il loro valore d'uso al dettaglio, cioè solo per un tempo determinato, vale a dire di darle in affitto. La vendita al dettaglio realizza dunque il valore di scambio solo poco a poco; di questa rinuncia al realizzo immediato del capitale investito, e del profitto da ricavarne, il venditore viene ammortizzato con un aumento di prezzo, una maturazione di interesse il cui ammontare è determinato dalle leggi dell'economia politica e per niente affatto in modo arbitrario. Alla fine dei cent'anni la casa è completamente usata, consumata, divenuta inabitabile. Se allora dal totale delle quote d'affitto corrisposte detraiamo: 1) la rendita fondiaria, ivi compreso l'eventuale aumento che essa subisce nel tempo e 2) i costi di riparazione ordinaria, troveremo che il restante si compone in media: 1) del capitale originario investito nella costruzione della casa, 2) del profitto che ne risulta e degli interessi maturati via via sul capitale e sul profitto. Alla fine di questo lasso di tempo il locatario non ha certo nessuna casa, ma non l'ha nemmeno il padrone. Questi possiede infatti solo il terreno (qualora esso gli appartenga) e i materiali da costruzione che vi si trovano, ma che non costituiscono più una casa. E se nel frattempo la casa "ha ricoperto 5 o 10 volte il prezzo di costo originario", vedremo che questo è dovuto unicamente ad un aumento della rendita fondiaria; e ciò non è un mistero per nessuno in luoghi come Londra, ove il proprietario del terreno e quello della casa sono per lo più due persone diverse. Gli enormi aumenti d'affitto di cui s'è parlato si verificano nelle città in rapida espansione, ma non in un villaggio rurale, dove la rendita delle aree fabbricabili resta quasi immutata. È anzi un fatto notorio che, a prescindere dagli aumenti della rendita fondiaria, i fitti di casa in media non rendono al proprietario più del 7 percento annuo del capitale investito (ivi incluso il profitto), da cui vanno ancora detratte le spese di riparazione ecc. Insomma, il contratto di locazione è un negozio commerciale del tutto comune, che in linea teorica per il lavoratore non ha interesse né maggiore né minore di qualsiasi altra compravendita, eccettuata quella in cui si tratta di comperare e vendere la forza lavoro, mentre in pratica esso gli si presenta come una delle mille formule della truffa borghese di cui parlo a pagina quattro [del primo capitolo] di questo opuscolo, ma che, come ho ivi dimostrato, sono soggette anch'esse a una disciplina economica.

Mülberger, invece, nel contratto di locazione non scorge altro che un mero "arbitrio" (pagina 19 dell'opuscolo), e quando io gli dimostro il contrario, si lamenta che io gli dico "cose scontate che purtroppo egli sapeva già da sé".

Ma con tutte le indagini economiche sulla pigione delle case non arriviamo a tramutare l'abolizione delle case d'affitto in "uno degli sforzi più fecondi e grandiosi che si siano sprigionati dal grembo dell'idea rivoluzionaria". Per giungere a tanto, dobbiamo trasferire il semplice fatto dalla spassionata scienza economica nella già ben più ideologica giurisprudenza. La casa serve come perpetuo titolo giuridico di canone d'affitto; "e allora avviene" che il valore della casa possa essere pagato in affitto due, tre, cinque, dieci volte. A capire come "ciò avvenga" il "titolo giuridico" non ci aiuta per niente; è per questo che io dicevo che il Mülberger avrebbe potuto sapere come "ciò avvenga" solo ricercando come la casa diventi titolo giuridico. E questo veniamo a saperlo solo indagando, come ho fatto io, la natura economica dell'affitto di casa, invece d'arrabbiarci per l'espressione giuridica con cui lo sanziona la classe dominante. Chi propone dei provvedimenti economici per abolire l'affitto di casa, è pur obbligato a conoscere su quest'ultimo qualcosa di più suo rappresentante "il tributo (...) che il locatario paga al diritto perpetuo del capitale". A tutto questo il Mülberger risponde: "Altro è una descrizione, altro una spiegazione".

La casa, benché niente affatto perenne, l'abbiamo dunque tramutata in titolo giuridico perenne al canone d'affitto. Da una parte troviamo come "avvenga" che, in forza di questo titolo giuridico, la casa renda più volte il suo valore sotto forma di canone d'affitto. Avendo tradotto le cose in termini giuridici, ci siamo felicemente allontanati dall'economia, a tal punto che non vediamo ormai più il fenomeno per cui una casa può pagarsi più volte a poco a poco in fitto lordo. Poiché pensiamo e parliamo in termini giuridici, applichiamo a questo fenomeno il criterio del diritto, della giustizia, e troviamo essere ingiusto che il fenomeno non corrisponda all'"ideale di diritto della rivoluzione", quale che esso voglia essere, e che pertanto il titolo giuridico non è buono a nulla. Troviamo, inoltre, che lo stesso vale del capitale fruttante interesse e del terreno coltivo affittabile, e abbiamo ora il pretesto per separare l'una dall'altra queste due categorie di proprietà e di sottoporle ad un trattamento d'eccezione. Quest'ultimo consiste nelle seguenti esigenze: 1) nel togliere al proprietario il diritto di disdetta, cioè il diritto di reclamare la sua proprietà; 2) di lasciare al locatario, mutuatario o fittavolo il godimento gratuito dell'oggetto a lui affidato ma non appartenentegli, e 3) di pagare il proprietario in una serie piuttosto lunga di rateazioni senza interesse. E con ciò abbiamo esaurito per questo verso i "principi" proudhoniani. È questa la "liquidazione sociale" di Proudhon.

Da notare per inciso. Che tutto questo piano di riforma torni ad esclusivo vantaggio dei piccoli borghesi e dei piccoli coltivatori, consolidandoli nella loro posizione di piccoli borghesi e di piccoli coltivatori, è di evidenza solare. Ecco quindi che la figura, secondo Mülberger leggendaria, del "Proudhon piccolo-borghese", riceve improvvisamente una consistenza storica oltremodo tangibile.

Il Mülberger prosegue:

"Quando, con Proudhon, dico che la vita economica della società dovrebbe essere compenetrata da una idea del diritto, con questo descrivo quella odierna come una società in cui manchi non una qualsiasi idea giuridica, bensì l'idea giuridica della rivoluzione: un fatto, questo, che ammetterà lo stesso Engels".

Purtroppo non sono in grado di fargli questo favore. Il Mülberger esige che la società debba essere pervasa da un ideale di diritto, e definisce questo una "descrizione". Se un tribunale mi rimette per mano d'usciere l'ingiunzione di pagare un debito, secondo Mülberger non è nient'altro che descrivermi come un uomo non paga i suoi debiti! Altro è una descrizione, altro una pretesa.

E proprio qui sta la differenza essenziale fra il socialismo scientifico tedesco e Proudhon. Noi descriviamo, e - lo voglia o no Mülberger, ogni vera descrizione è al tempo stesso la spiegazione della realtà descritta - i rapporti economici quali sono e, in termini strettamente economici, dimostriamo che questo loro sviluppo è al tempo stesso lo sviluppo degli elementi di una rivoluzione sociale: lo sviluppo, da una parte d'una classe la cui condizione di vita la spinge necessariamente alla rivoluzione sociale, cioè il proletariato, e dall'altra di forze produttive che eccedono la cornice della società capitalistica, devono necessariamente farla scoppiare, e che offrono al tempo stesso la possibilità di superare una volta per tutte le differenze di classe ai fini del progresso sociale medesimo. Proudhon, invece, pone alla società moderna l'esigenza di trasformarsi non secondo le leggi del suo proprio sviluppo economico, bensì secondo la prescrizione della giustizia ("l'ideale di diritto" è cosa non sua, ma di Mülberger). La dove noi dimostriamo, Proudhon fa prediche e lamentazioni, e insieme a lui Mülberger. Che cosa sia "l'idea giuridica della rivoluzione", io non sono assolutamente capace d'indovinarlo. Certo sì è che "della rivoluzione" Proudhon si fa una sorta d'idea che è depositaria e attuatrice della sua "giustizia"; è per questo che poi cade nel curioso errore di confondere la rivoluzione borghese del 1789-94 con la futura rivoluzione proletaria. E lo fa in quasi tutte le sue opere, specialmente dal 1848 in poi; quale esempio adduco solo l'Idée générale de la revolution, ediz. 1868, pp. 39 e 40. Ma poiché Mülberger declina qualsiasi responsabilità e solidarietà con Proudhon, mi resta precluso lo spiegare in base a quest'ultimo "l'idea giuridica della rivoluzione", e permango in egizia tenebra [23].

Più oltre Mülberger dice:

"Ma né Proudhon né io facciamo appello ad una "giustizia eterna" per spiegare con essa le condizioni ingiuste esistenti, o addirittura, secondo quel che imputa Engels, per attenderci il loro miglioramento dal ricorso a questa giustizia".

Mülberger deve fare affidamento sul fatto che "soprattutto in Germania Proudhon sia conosciuto poco o nulla". In tutti i suoi scritti Proudhon commisura tutti i suoi enunciati sociali, giuridici, politici, religiosi, al criterio della "giustizia", li respinge e li accetta a seconda che concordino o meno con quello che egli chiama "giustizia". Nelle Contradictions économiques essa si chiama ancor "giustizia eterna", justice éternelle. In seguito l'eternità sparisce, ma resta sostanzialmente. Ad esempio in De la justice dans la révolution et dans l'église, edizione 1858, il testo su cui è svolta l'intera predica in tre volumi, riportiamo il passo seguente (volume I, pag. 142):

"Qual è il principio fondamentale, il principio organico, regolatore, sovrano della società, il principio che, subordinando a sé tutti gli altri, governa, protegge, respinge, castiga e in caso di necessità perfino opprime tutti gli elementi ribelli? È la religione, l'ideale, l'interesse? (...) Questo principio, a mio avviso, è la giustizia. - Che cos'è la giustizia? L'essenza dell'umanità stessa. Che cos'è stata dall'inizio del mondo! Nulla. - Che cosa dovrà essere? Tutto".

Una giustizia che è l'essenza dell'umanità stessa, che altro è se non la giustizia eterna? Una giustizia, che è il principio fondamentale organico, regolatore, sovrano della società, un principio che finora però non è stato nulla ma che dovrà essere tutto, che altro è se non il criterio su cui commisurare tutte le cose umane, a cui appellarsi in ogni caso di collusione come al giudice inappellabile? Ed io ho forse affermato qualcosa di diverso da questo, che Proudhon mimetizza la sua ignoranza e inettitudine in fatto d'economia col suo giudicare tutti i rapporti economici non secondo le leggi economiche, bensì in base al loro accordarsi o meno a codesta sua idea di giustizia eterna? E in che cosa si differenzia da Proudhon il Mülberger, allorché pretende che "tutte le trasformazioni nella vita della società moderna" siano "pervase da un ideale di diritto, cioè attuate ovunque secondo le rigorose esigenze della giustizia"? sono io che non so leggere, o è Mülberger che non sa scrivere?

Più avanti dice Mülberger:

"Come Marx ed Engels, anche Proudhon sa benissimo che l'elemento propulsore vero e proprio della società umana sono i rapporti economici, e non i politici, anch'egli sa che le idee giuridiche che un popolo ha in un determinato momento storico sono soltanto l'espressione, l'impronta, il prodotto dei rapporti economici, in particolare dei rapporti di produzione (...) Per Proudhon il diritto è, in una parola, prodotto economico storicamente realizzato".

Se Proudhon sa tutto questo (voglio lasciar correre il modo oscuro che il Mülberger ha di esprimersi e prendere per fatto compiuto le buone intenzioni), se Proudhon sa tutto questo altrettanto bene di Marx e di Engels, come potremo polemizzare oltre? Il fatto è che le cose stanno alquanto diversamente quanto alla scienza di Proudhon. I rapporti economici d'una data società si presentano anzitutto come interessi. Ora, dal passo appena citato dalla sua opera principale, Proudhon dice asciuttamente che il "principio fondamentale organico, regolatore, sovrano della società, il principio che subordina a sé tutti gli altri" è non l'interesse, bensì la giustizia. E lo ripete in tutti i passi più rilevanti di tutti i suoi scritti. Ciò non impedisce al Mülberger di proseguire affermando:

" (...) che l'idea del diritto economico, quale Proudhon l'ha sviluppata nel modo più profondo in La guerre et la paix, coincide perfettamente con quelle idee fondamentali di Lassalle, quali sono esposte nella prefazione al Sistema dei diritti acquisiti".

La guerre et la paix è forse la più scolastica delle molte opere scolastiche di Proudhon, ma che la si adduca come prova della sua presunta intelligenza del materialismo storico tedesco, secondo cui tutti gli avvenimenti e le idee della storia, tutta la politica, la filosofia, la religione sono spiegate in base ai rapporti economici vitali del periodo storico in questione, non me lo sarei mai aspettato. Il libro è così poco materialista che non vi si riesce nemmeno a ricostruire il fatto della guerra senza nemmeno chiamare in soccorso il Creatore:

"Eppure, il Creatore, che ha scelto per noi questo modo di vita, aveva i sui scopi" (volume II, pag. 100 dell'edizione del 1869)

Su quale conoscenza storica il libro si basi, risulta dal fatto che vi si dimostra di credere nell'esistenza storica dell'età dell'oro:

"Agli inizi, quando l'umanità era disseminata ancora radamente sull'orbe terracqueo, la natura provvedeva senza fatica ai bisogni di essa. Era l'età dell'oro, l'era della sovrabbondanza e della pace" (pag. 102)

Il punto di vista economico del libro è quello del più crasso malthusianismo:

"Quando sarà raddoppiata la produzione, lo sarà ben presto anche la popolazione" (pagina 106)

E dove sta allora il materialismo del libro? Nell'affermazione che la causa della guerra è da sempre e tuttora il "pauperismo" [24] (ad es. pag. 143). Lo zio Bräsig era anche lui un perfetto materialista allorché nel suo discorso del 1848 pronunciò con tutta tranquillità il gran detto: "La causa della gran povertà è la gran pauvreté" [25].

Il sistema dei diritti acquisiti di Lassalle è irretito non solo in tutte le illusioni del giurista, bensì anche in quelle del vecchio hegeliano. A pagina VII Lassalle dichiara esplicitamente che anche "nella realtà economica il concetto di diritto acquisito è la fonte da cui scaturisce e prende forza ogni ulteriore sviluppo ", egli tende dimostrare "che il diritto (...) è un organismo razionale che si sviluppa da sé medesimo" (pag. XI), dunque non da precondizioni economiche; si tratta, per lui, di derivare il diritto non da rapporti economici, bensì dal "concetto stesso di volontà, che ha il suo sviluppo e la sua esposizione solo nella filosofia del diritto" (pag. XII). Che cosa vuol dire, dunque, il libro a questo proposito? La differenza fra Proudhon e Lassalle è solo questa: che Lassalle era un vero giurista e hegeliano, mentre Proudhon nella giurisprudenza e nella filosofia, come in tutte le altre cose, non era che un dilettante.

Che Proudhon, il quale come è noto si contraddice continuamente, qua e là abbia fatto qualche dichiarazione che sembra quasi spiegare idee in base a fatti, lo so benissimo. Ma simili dichiarazioni sono prive d'importanza rispetto all'indirizzo di pensiero che il nostro uomo persegue costantemente, e, dove appaiono, sono per di più confuse e incoerenti al massimo.

Ad un certo grado, assai primitivo, di sviluppo della società si fa sentire il bisogno di comprendere in una regola comune gli atti quotidianamente ripetentisi della produzione, della distribuzione e dello scambio, di provvedere a che il singolo si sottometta alle condizioni comuni della produzione e dello scambio. Questa regola, sulle prime costumanza, diviene ben presto legge. Insieme alla legge nascono necessariamente degli organi a cui ne è affidata la salvaguardia, i poteri pubblici, lo Stato. Con l'ulteriore sviluppo sociale, la legge si evolve in una più o meno ampia legislazione. Quanto più intricata essa diviene, tanto più il suo linguaggio si allontana da quello in cui si esprimono le abituali condizioni della vita economica della società. Essa appare come un elemento autonomo, che ricava la giustificazione della sua esistenza e la ragione del suo progressivo sviluppo non dalle condizioni economiche, bensì, a mio parere, da proprie motivazioni intrinseche, dal "concetto di volontà". Gli uomini hanno dimenticato che il loro diritto deriva dalle condizioni della loro vita economica, così come essi medesimi derivano dal mondo animale. Con lo svilupparsi della legislazione in un insieme intricato ed esteso, emerge la necessità di una nuova distinzione del lavoro; prende corpo un ceto di giuristi professionisti e, con essi, nasce la scienza del diritto. Questa, nel suo ulteriore sviluppo, raffronta fra di loro i sistemi giuridici dei vari popoli e delle varie epoche, non come espressioni dei rapporti economici relativi, bensì come sistemi che trovano la loro fondazione in se stessi. Il raffronto presuppone un elemento comune: questo viene reperito in quel diritto naturale in cui i giuristi mettono insieme gli elementi più o meno comuni a tutti i sistemi giuridici. Sennonché il metro a cui si commisura ciò che è diritto naturale e ciò che non lo è, è appunto l'espressione più astratta del diritto medesimo: la giustizia. D'ora in poi, dunque, per i giuristi e per quelli che credono loro sulla parola, l'evoluzione del diritto non è altro più che lo sforzo di avvicinare continuamente all'ideale di giustizia, di giustizia eterna, le condizioni umane, nella misura in cui le si esprime giuridicamente. E questa giustizia non è altro che l'espressione ideologicizzata, incielata nei rapporti economici, che si ottiene seguendo ora la loro tendenza conservatrice, ora quella rivoluzionaria. La giustizia dei Greci e dei Romani riteneva giusta la schiavitù: la giustizia dei borghesi del 1879 postulava l'abolizione del feudalesimo ritenendolo ingiusto. Per gli Junker prussiani è una violazione dell'eterna giustizia persino il vieto ordinamento distrettuale [26]. L'idea di giustizia eterna, dunque, cambia non solo con i tempi e i luoghi, bensì anche con le persone, e va annoverata fra quelle cose in cui, come rileva giustamente Mülberger, ciascuno intende qualcosa di diverso. Allorché nella vita d'ogni giorno, nella semplicità dei rapporti che occorre giudicare, sono introdotte senza equivoco, in riferimento a realtà sociali, espressioni quali "giusto", "ingiusto", "giustizia", "senso del diritto", come si è visto esse causano nelle indagini scientifiche sui rapporti economici la stessa irrimediabile confusione che, ad esempio, si produrrebbe nella chimica odierna se vi si volesse mantenere le locuzioni proprie della teoria flogistica. Ancora peggiore si fa la confusione qualora, a pari di Proudhon, si credesse a quel flogiston sociale che è la "giustizia" o, come suggerisce Mülberger, si attribuisce a questo flogiston un'esatta consistenza non inferiore a quella che ha l'ossigeno [*7].

III

Mülberger si duole, inoltre, che io definisca come una "geremiade reazionaria" il suo seguente "enfatico" sfogo:

" (...) non si dà vergogna più terribile per l'intera civiltà del nostro celebrato secolo del fatto che nelle grandi città in pratica il 90% e oltre della popolazione non abbia luogo che possa chiamare proprio".

Indubbiamente. Se Mülberger si fosse limitato, come pretende, a descrivere gli "orrori" del presente, certo io non avrei sparlato "di lui e delle sue modeste parole". Ma egli fa qualcosa di completamente diverso. Descrive questi "orrori" come effetto del fatto che i lavoratori "non hanno luogo che possa chiamare proprio". Si lamentino "gli orrori del presente" come causati dal fatto che i lavoratori non sono proprietari della loro casa o, come fanno gli Junker, dal fatto che non esistono più il feudalesimo e le corporazioni, in ambedue i casi non può venir fuori altro che una geremiade reazionaria, una lamentazione sull'irrompere dell'inevitabile, dello storicamente necessario. La reazione sta proprio nel fatto che Mülberger vuol restaurare la proprietà individuale della casa da pare dei lavoratori - qualcosa di cui la storia ha fatto piazza pulita da tempo; sta nel suo non saper immaginare la liberazione dei lavoratori altrimenti che come un tornare a fare di ciascuno di essi il proprietario della sua casa.

Più oltre:

"Lo affermo nel modo più esplicito: la vera lotta è contro il modo di produzione capitalistico, e solo dalla sua trasformazione è da sperare il miglioramento delle condizioni abitative. Engels non vede nulla di tutto questo (...) io presuppongo la completa soluzione della questione sociale perché si possa procedere a quella delle case d'affitto".

Purtroppo nemmeno oggi io vedo nulla di tutto questo. Mi è impossibile sapere che cosa, un qualcuno di cui ignoro persino il nome, presupponga solo soletto nel suo cervello. Io posso attenermi unicamente agli articoli a stampa del Mülberger. E in essi trovo ancor oggi (pagine 15 e 16 dell'estratto) che per poter procedere al riscatto delle case a pigione Mülberger non presuppone altro che le case a pigione. Solo a pagina 17 egli prende di petto "la produttività del capitale". E su questo ritorneremo. Lo conferma anche nella sua replica allorché afferma:

"È, piuttosto, necessario spiegare come si possa imporre il mutamento sociale nella questione della casa muovendo dalla situazione esistente".

Muovere dalla situazione esistente e muovere dalla trasformazione (leggi: abolizione) del modo di produzione capitalista sono in verità due cose completamente opposte.

Nessuna meraviglia che il Mülberger si lamenti del mio individuare la sola possibile realizzazione pratica dei suoi progetti proudhoniani negli sforzi filantropici che il signor Dollfus e altri industriali compiono per aiutare gli operai a farsi una casa propria. Se egli si rendesse conto che il piano di Proudhon per la salvezza della società è una fantasticheria che si svolge tutta sul terreno della società borghese, è ovvio che non vi crederebbe. Sulle sue buone intenzioni io non ho espresso mai alcun dubbio. Ma perché egli loda il dott. Reschauer per aver proposto al consiglio municipale di Vienna di far propri i progetti di Dollfus?

Più oltre Mülberger dichiara:

"Per quanto concerne specificamente il contrasto tra città e campagna, va annoverata tra le utopie la pretesa di abolirlo. Esso è un contrasto naturale, o, per meglio dire, un contrasto determinatosi storicamente (...) È necessario non abolire tale contrasto, bensì trovare forme politiche e sociali in cui esso sia innocuo, anzi addirittura fecondo. In tal modo vi è da attendersi una composizione pacifica, un graduale equilibrio degli interessi".

L'abolizione del contrasto fra città e campagna è dunque un'utopia perché è un contrasto naturale o, per meglio dire, venutosi a creare storicamente. Applichiamo questa logica ad altri contrasti della società moderna e vedremo dove si può arrivare. Ad esempio:

"Per ciò che concerne specificamente" il contrasto fra capitalisti e lavoratori salariati "va annoverata tra le utopie la pretesa di abolirlo. Esso è un contrasto naturale, per meglio dire, un contrasto determinatosi storicamente. È necessario non abolire tale contrasto, bensì trovare forme politiche e sociali in cui esso sia innocuo, anzi addirittura fecondo. In tal modo vi è da attendersi una composizione pacifica, un graduale equilibrio degli interessi".

Con questo siamo ritornati a Schulze-Delitzsch.

L'abolizione del contrasto fra città e campagna non è un'utopia, né più né meno di quanto non è utopia l'abolizione del contrasto fra capitalisti e salariati. Giorno per giorno essa diventa un'esigenza pratica della produzione tanto industriale quanto agricola. Nessuno l'ha postulata più a gran voce di quanto l'abbia fatto Liebig nei suoi scritti sulla chimica dell'agricoltura, in cui la prima esigenza è sempre che l'uomo restituisca al terreno ciò che ne riceve, ed in cui l'autore mostra che ad impedirlo è solo l'esistenza delle città, soprattutto delle grandi città. Se si considera come, nella sola Londra, venga gettato in mare ogni giorno, con l'impiego di spese ingenti, un quantitativo di concime maggiore di quello che produce l'intera Sassonia, e quali impianti colossali si rendano necessari per impedire che questo concime intossichi interamente Londra, ecco che l'utopia dell'abolizione del contrasto fra città e campagna riceve un fondamento pratico insospettato. Ed anche Berlino, relativamente insignificante al confronto, da almeno trent'anni si ammorba dei suoi propri escrementi. D'altro canto è una pura utopia il pretendere, come fa Proudhon, di rivoluzionare l'odierna società borghese per mantenere i contadini quali sono attualmente. Solo una ripartizione il più possibile uniforme della popolazione in tutto il paese, solo uno stretto collegamento fra la produzione industriale e quella agricola, oltre all'estendersi perciò necessario dei mezzi di comunicazione (ed in tal caso va data per scontata l'abolizione del modo di produzione capitalista) è in grado di strappare la popolazione rurale all'isolamento e all'abbruttimento in cui vegeta quasi immutatamente da millenni. Non è un'utopia affermare che la liberazione degli uomini dalle catene forgiate dal loro passato storico potrà essere completa solo allorché sarà abolito il contrasto fra città e campagna; l'utopia nasce solo qualora, "muovendo dalla situazione esistente", si prescriva la forma in cui debba essere risolto questo o qualsiasi altro contrasto della società esistente. E ciò compie Mülberger facendo sua la formula proposta da Proudhon per risolvere la questione delle abitazioni.

Mülberger, poi, si lamenta che io lo renda in qualche modo corresponsabile delle "mostruose concezioni di Proudhon su capitale e interesse", e afferma:

"Io presuppongo come dato il mutamento dei rapporti di produzione, e la legge di transizione che regola il tasso d'interesse ha per oggetto non i rapporti di produzione, bensì gli spostamenti sociali, i rapporti di circolazione (...) Il mutamento dei rapporti di produzione, o, come dice più precisamente la scuola tedesca, l'abolizione del modo di produzione capitalista, è ovvio che, al contrario di quanto mi fa dire Engels, non risulta da una legge di transizione che abolisca l'interesse, bensì dall'effettiva presa di possesso di tutti gli strumenti di lavoro, dalla conquista di tutta l'industria da parte del popolo lavoratore. E se il popolo lavoratore indulgerà (!), in questa materia, al riscatto, o piuttosto all'esproprio immediato, non tocca né ad Engels né a me deciderlo".

Mi stropiccio gli occhi sbalordito. Rileggo ancora una volta da cima a fondo la trattazione di Mülberger per trovare il passo in cui egli dichiara che il riscatto della casa d'affitto da lui proposto presupponga come fatto compiuto "l'effettiva presa di possesso di tutti gli strumenti di lavoro, dalla conquista di tutta l'industria da parte del popolo lavoratore".

Quel passo non lo trovo. Non esiste. Dell'"effettiva presa di possesso" ecc. non si fa parola in nessun posto. A pagina 17 si dice piuttosto:

"Facciamo ora l'ipotesi che la produttività del capitale sia presa realmente di petto, come presto o tardi dovrà avvenire, ad esempio con una legge provvisoria che fissi l'interesse di tutti i capitali all'uno percento, beninteso con la tendenza ad avvicinare questa percentuale sempre più allo zero (...) Come tutti gli altri prodotti, naturalmente anche casa e abitazione sono compresi nel quadro di questa legge (...) Di qui, dunque, vediamo che il riscatto dell'appartamento d'affitto risulta necessariamente come una conseguenza dell'abolizione della produttività del capitale in genere".

Qui, dunque, in completa antitesi con la recentissima svolta di Mülberger, si afferma seccamente che la produttività del capitale (e con questa locuzione egli intende, a suo stesso dire, il modo di produzione capitalistico) sarebbe indubbiamente "presa di petto" dalla legge abrogativa dell'interesse, per cui proprio in conseguenza di tale legge, il "riscatto dell'appartamento d'affitto risulta necessariamente come una conseguenza dell'abolizione della produttività del capitale in genere". Niente affatto, dice ora Mülberger. Quella legge di transizione "ha per oggetto non i rapporti di produzione, bensì i rapporti di circolazione". Dinanzi ad una così completa contraddizione, che, per dirla alla Goethe, "resta piena di mistero tanto per i savi come per i pazzi" [27], non mi resta altro che presumere di avere a che fare con due Mülberger del tutto diversi, l'uno dei quali si duole a ragione che io gli abbia fatto dire quello che l'altro ha fatto stampare.

Se il popolo lavoratore non verrà a chiedere né a me né a Mülberger se nell'effettiva presa di possesso "di fatto indulgerà al riscatto o piuttosto all'esproprio immediato", è indubbiamente vero. Con la massima probabilità preferirà non indulgere in alcun modo. Fin qui il discorso non verteva affatto sull'effettiva presa di possesso di tutti gli strumenti di lavoro da parte del popolo lavoratore, ma solo sull'affermazione di Mülberger (pag. 17) secondo cui "la soluzione del problema della casa sia tutta nella parola riscatto".

Se ora egli dichiara questo riscatto dubbio al massimo, a che pro tutta questa fatica inutile per noi due e per i lettori?

Del resto va constatato che l'"effettiva presa di possesso" di tutti gli strumenti di lavoro, la conquista dell'intera industria da parte del popolo lavoratore, è proprio l'opposto del "riscatto" proudhoniano. In quest'ultimo il singolo lavoratore diventa proprietario della casa, del podere, dello strumento di lavoro; nella prima è il popolo lavoratore a restare proprietario collettivo delle case, delle fabbriche e degli strumenti di lavoro, e, almeno nel periodo di transizione, difficilmente ne sarà lasciato l'usufrutto a singoli o società senza risarcimento delle spese. Né più né meno come l'abolizione della proprietà fondiaria non è l'abolizione della rendita fondiaria (bensì il suo trasferimento, anche se con le dovute trasformazioni, alla società), l'effettiva presa di possesso di tutti gli strumenti di lavoro da parte del popolo lavoratore non esclude affatto il mantenimento dei rapporti d'affitto.

Comunque, non si tratta minimamente della questione se il proletariato, una volta giunto al potere, s'impadronisca semplicemente con la forza degli strumenti di produzione, delle materie prime o dei mezzi di sussistenza, sia che se ne paghi subito un indennizzo o che si riscatti la proprietà con dei lunghi pagamenti rateali. Pretendere di rispondere a tale questione in precedenza e per tutti i casi, significa fabbricare utopie, e io lo lascio fare agli altri.

IV

Tutto questo nero su bianco è stato necessario per poter giungere una buona volta, attraverso le svariate scappatoie e tortuosità del Mülberger, alla realtà stessa che il Mülberger evita accuratamente di toccare nella sua replica. Che cosa aveva affermato di positivo Mülberger nella sua trattazione?

In primo luogo, che "la differenza tra l'originario prezzo di una casa, di un'area fabbricabile ecc. e il suo valore odierno" appartiene di diritto alla società. In linguaggio economico questa differenza si chiama "rendita fondiaria". Anche Proudhon vuole attribuirla alla società, come si può leggere nell'Idèe gènerale de la rèvolution, edizione 1868, pag. 219.

In secondo luogo, che la soluzione della questione della casa consiste nel fatto che ognuno, invece del locatario, diventi proprietario della sua abitazione.

In terzo luogo, che questa soluzione si attua tramutando per mezzo d'una legge il pagamento dell'affitto nel prezzo d'affitto della casa. - I punti 2 e 3 sono tolti entrambi di peso da Proudhon, come può vedere chiunque nell'Idèe gènerale de la rèvolution, pag. 199 e seguenti, mentre a pagina 203 si trova persino bell'è fatto il suo bravo progetto di legge.

In quarto luogo, che la produttività del capitale viene presa di petto da una legge di transizione, per cui il tasso d'interesse viene provvisoriamente ridotto all'uno percento, con la riserva di abbassarlo ulteriormente in seguito. Anche questo è mutuato da Proudhon, come si può leggere esaurientemente nell'Idèe gènerale, pagg. 182-186.

Per ciascuno di questi punti ho citato un passo di Proudhon in cui si trova l'originale della copia mülbergeriana, ed ora chiedo se avevo o non avevo ragione di chiamare proudhoniano l'autore di un articolo che contiene opinioni del tutto proudhoniane e nient'altro che proudhoniane. Eppure Mülberger di nulla si duole più amaramente del fatto che io lo definisca come tale, solo perché mi sono imbattuto "in talune locuzioni che sono peculiari di Proudhon"! Al contrario. Le "locuzioni" sono tutte del Mülberger, i contenuti sono di Proudhon. E se poi integro la trattazione proudhoniana con Proudhon, ecco che il Mülberger si lamenta che gli attribuisco le "mostruose concezioni" di Proudhon!

Orbene, che cosa ho contrapposto a questo disegno proudhoniano?

In primo luogo, che il trasferimento della rendita fondiaria allo Stato equivale all'abolizione della proprietà fondiaria individuale.

In secondo luogo, che il riscatto della casa d'affitto e il trasferimento della proprietà di quest'ultima al proprietario attuale non tocca minimamente il modo di produzione capitalista.

In terzo luogo, che, nell'attuale sviluppo della grande industria e delle città, tale proposta è tanto insulsa quanto reazionaria, e che la reintroduzione della proprietà individuale della propria abitazione da parte di ogni singolo sarebbe un regresso.

In quarto luogo, che l'abbattimento coercitivo dell'interesse di capitale non intacca minimamente il modo di produzione capitalista, e al contrario, come dimostrano le leggi sull'usura, è tanto antiquato quanto impossibile.

In quinto luogo, che con l'abolizione dell'interesse di capitale non è affatto abolito il canone di affitto delle case.

Ora Mülberger accetta i punti 2 e 4. Agli altri non ribatte nemmeno una parola. Eppure sono proprio quelli di cui si tratta nella nostra controversia.

Ma la replica di Mülberger non è una confutazione; gira accuratamente a largo da tutti i punti di carattere economico, che pure sono i decisivi; è uno scritto di querela personale e nient'altro. Egli, infatti, si lamenta che io prevengo la soluzione che egli annuncia di altre questioni, ad esempio il debito pubblico, i debiti privati, il credito, e afferma che la soluzione è ovunque questa: che, come nella questione della casa, si abolisca l'interesse, che il pagamento di quest'ultimo sia tramutato in acconti sull'ammontare del capitale e il credito sia reso gratuito. Ciononostante io sarei pronto ancora oggi a scommettere che, quando vedranno la luce di questo mondo, codesti articoli di Mülberger concorderanno, nei loro contenuti essenziali, con l'Idèe gènerale di Proudhon: credito (pag. 182), debito pubblico (pag. 186), debiti privati (pag. 186), né più né meno come quelli della questione della casa concordano con i passi citati del medesimo libro.

In questa occasione Mülberger ci insegna che questioni come le imposte, il debito pubblico, i debiti privati e il credito, a cui ora si aggiunge anche l'autonomia comunale, sono della massima importanza per i contadini e per la propaganda nelle campagne. Per la massima parte siamo d'accordo; ma: 1) finora non si è parlato affatto dei contadini e 2) le "soluzioni" proudhoniane di tali questioni sono altrettanto insensate sul piano economico e altrettanto essenzialmente borghesi di quella data alla questione della casa. Dall'appunto che mi muove Mülberger, quello di non conoscere la necessità di attrarre nel movimento i contadini, io non ho bisogno di difendermi. Ma ritengo indubbiamente una follia raccomandare a tale scopo ai contadini le ciarlatanerie proudhoniane. In Germania esiste ancora una proprietà fondiaria assai estesa. Secondo la teoria proudhoniana la si dovrebbe spezzettare tutta in piccoli poderi, qualcosa che, allo stato attuale della scienza agraria e secondo le esperienze compiute con le proprietà terriere parcellari di Francia e Germania occidentale, sarebbe assolutamente reazionario. La grande proprietà fondiaria ancora esistente ci offrirà piuttosto un opportuno pretesto per far esercitar l'agricoltura in grande, l'unica in cui si possano adoperare tutti gli espedienti moderni, i macchinari e via dicendo, e di farla esercitare da parte di lavoratori associati, rendendo così evidente ai piccoli contadini i vantaggi che offre la conduzione in grande di tipo associativo. I socialisti danesi, che a questo riguardo sono avanti a tutti gli altri, si sono resi conto di questo da lungo tempo [28].

Non ho bisogno di difendermi neppure dall'accusa secondo cui le infami condizioni abitative odierne dei lavoratori mi apparirebbero "una quisquiglia insignificante". Per quanto io sappia, sono stato il primo ad avere descritto in tedesco tali condizioni nella loro forma classisticamente evoluta, quali esistono in Inghilterra. Non perché, come ritiene il Mülberger, esse "fanno a pugni con il mio senso del diritto" (chi volesse tramutare in libri tutti i fatti che fanno a pugni con il suo senso del diritto, avrebbe un gran bel da fare), bensì, come si può leggere nella prefazione del mio libro [La condizione della classe operaia in Inghilterra], per dare un fondamento effettivo al socialismo tedesco allora sorgente e portato in giro in vuote frasi altisonanti, e di darglielo descrivendo le condizioni sociali create dalla grande industria moderna. In verità, non mi venne mai in mente di voler risolvere la cosiddetta "questione" della casa, così come non mi sono mai occupato nei dettagli della soluzione dell'ancora più importante questione del vitto. Sono contento quando posso dimostrare che la produzione della nostra società moderna è sufficiente a dare di che mangiare a sufficienza a tutti i suoi membri, e che esistono case a sufficienza per offrire provvisoriamente alle masse lavoratrici un asilo spazioso e sano. Speculare sul come una società futura regolerà la distribuzione del vitto e delle abitazioni, è cosa che porta diritto all'utopia. Se conosciamo a fondo le condizioni basilari di tutti i modi di produzione finora esistenti, potremo tutt'al più assodare che, con il venir meno della produzione capitalistica, si faranno impossibili certe forme d'appropriazione della società attuale. Anche le norme transitorie si dovranno orientare ovunque secondo le condizioni esistenti attualmente, e nei paesi a piccola proprietà fondiaria saranno essenzialmente diverse che in quelli a grande proprietà fondiaria e via dicendo. Dove si vada a finire ricercando soluzioni isolate a questioni cosiddette pratiche, quali il problema della casa ecc., nessuno ce lo mostra meglio dello stesso Mülberger, che dapprima in 28 pagine ci spiega come "la soluzione del problema della casa sta tutta nella parola riscatto" e poi, non appena lo si pone alle strette, balbetta del tutto confuso che è assai dubbio il fatto che nell'effettiva presa di possesso delle abitazioni "il popolo lavoratore indulgerà al riscatto" o piuttosto a qualche altra forma d'esproprio.

Il Mülberger esige che noi diventiamo pratici, che "di fronte alle reali situazioni pratiche" non "accampiamo solo morte formule astratte", e che "abbandonando il socialismo astratto, ci accostiamo alle condizioni concrete e determinate della società". Se l'avesse fatto lui, il Mülberger avrebbe forse acquisito grandi meriti nel movimento. Il primo passo per accostarsi alle situazioni concrete e determinate della società consiste, a dire il vero, nell'imparare cosa esse siano, nel loro studiarle nel loro contesto economico attuale. E che cosa troviamo in Mülberger? Due intere proposizioni, che sono queste:

1. "Quel che il salariato è di fronte al capitalista, lo è il locatario di fronte al padrone di casa".

A pagina 6 dell'estratto ho dimostrato che questo è totalmente erroneo, e il Mülberger non ha da replicarmi nemmeno una parola.

2. "Ma il toro che" (nella riforma sociale) "va preso per le corna, è la produttività del capitale, come viene chiamata dalla scuola liberale di economia politica, produttività che di fatto non esiste, ma che nella sua esistenza apparente serve da copertura a tutte le sperequazioni che gravano sulla società moderna".

Il toro che va preso per le corna, dunque, "di fatto non esiste", e dunque non ha "corna" di sorta. Il male non sta in lui stesso bensì nella sua esistenza apparente.

Ciononostante la "cosiddetta produttività del capitale" è "in grado di far sorgere dal terreno per incanto case e città", la cui esistenza è non solo "apparente" (pagina 12). E un uomo che, "per quanto sia ben noto anche a lui" Il Capitale di Marx, farnetica in questo modo così irrimediabilmente confusionario sui rapporti fra capitale e lavoro, s'impanca a voler additare ai lavoratori tedeschi una via nuova e migliore e si spaccia per "architetto", che "almeno a grandi linee vede chiaro nella compagine architettonica della società futura"?

Nessuno si è accostato alle condizioni concrete e determinate della società più vicino di quanto abbia fatto Marx ne Il Capitale. Egli ha impiegato ben venticinque anni a studiare per tutti i versi, e i risultati della sua critica contengono ovunque, oltretutto, il germe delle cosiddette soluzioni, nella misura in cui esse sono mai possibili oggigiorno. Ma ciò non basta all'amico Mülberger. Tutto questo è socialismo astratto, sono morte formule astratte. Invece di studiare "le condizioni concrete e determinate della società", il nostro amico Mülberger s'accontenta di leggere alcuni dei tomi di Proudhon, che sulle condizioni concrete e determinate della società non gli offrono bensì quasi nulla, ma in compenso ben determinate e concrete misure miracolose per ogni male sociale, e propone questo compiuto disegno di salvazione sociale, il sistema proudhoniano, ai lavoratori tedeschi col pretesto di voler "dire addio ai sistemi", mentre io "scelgo la via opposta"! per poter comprendere tutto questo, devo presumere che io sono cieco e Mülberger sordo, sicché è veramente impossibile una qualsiasi intesa fra di noi.

Basta. Qualora questa polemica non serva a null'altro, ha comunque il vantaggio di avere fornito la prova dell'irrilevanza che ha la prassi di codesti socialisti che si proclamano "pratici". Le loro proposte pratiche per porre fine a tutti i mali della società, i loro toccasana universali, sono stati sempre e dovunque confezionati da fondatori di sette comparsi in quel tempo in cui il movimento proletario era ancora in fasce. Anche il Proudhon è del numero. Se non sbaglio, il proletariato, ha ben presto buttato via queste fasce da bambino, e ingenerato nella stessa classe lavoratrice la convinzione che nulla vi è di meno pratico di codeste "soluzioni pratiche" escogitate in anticipo, applicabili a tutti i casi, e che il socialismo pratico consiste piuttosto in una esatta cognizione del modo di produrre capitalista in tutti i suoi aspetti. Una classe lavoratrice che sia consapevole di questo, all'occorrenza non sarà mai indecisa su quali istituzioni sociali deve attaccare prima di tutte le altre e del modo in cui farlo.

 

Note

21. Il cartismo fu un movimento politico degli operai inglesi che fra gli anni trenta e cinquanta del secolo scorso si batterono per l'attuazione della cosiddetta carta del Popolo (People's Charter) pubblicata come progetto di legge da discutersi in Parlamento l'8 maggio 1838. I suoi postulati, intesi alla democratizzazione del sistema politico inglese, erano fissati in sei punti: suffragio universale, scrutinio segreto, elezioni annuali, indennità ai deputati, collegi elettorali di uguali proporzioni, eleggibilità a prescindere dal censo. Lo slogan elettorale dei lavoratori cartisti era: "Il potere politico è il nostro mezzo, la felicità sociale il nostro fine". Lenin definì quello cartista il primo movimento di massa proletario-rivoluzionario realmente tale.

22. Gli articoli del Mülberger, dopo essere stati pubblicati sul Volksstaat, furono raccolti in opuscolo Die Wohnungsfrage. Eine sociale Skizze (la questione della casa. Appunti di carattere sociale), 1872.

23. Allusione, proverbiale in aria germanofona, ad una delle bibliche "piaghe" d'Egitto, descritta in Esodo 10,22 ("Mosè stese la mano verso il cielo: vennero dense tenebre su tutto il paese d'Egitto, per tre giorni").

24. Il termine pauperismo indica un accrescimento generale della povertà. Ai tempi del "manifesto comunista" Marx ed Engels lo lasciavano intendere come una delle cause che avrebbe portato alla rivoluzione proletaria; proseguendo i loro studi abbandonarono però presto questa ipotesi, slegando in parte la concezione della lotta rivoluzionaria dalle situazioni di indigenza estrema: il proletariato, in quanto unica classe realmente produttiva, avrebbe in ogni caso lottato per la presa del potere politico e attuato così il socialismo.

25. L'ispettore Bräsig è il personaggio principale del romanzo Ut mine Stromtiel (Vicende dei miei anni d'ispettore agrario), scritto da Fritz Reuter (1810-1874). Personaggio pieno di bizzarra bonomia, Bräsig si abbandona talvolta a sentenze omericamente lapalissiane come quella, famosa, riportata da Engels; lapalissiana e tautologica, però, forse solo in apparenza; scrive infatti di essa Mittner, un acuto studioso della società tedesca: "Quando tutti parlano della crisi economica, Bräsig interviene, per fare sfoggio di una parola francese ed esce nella strabiliante dichiarazione: "La grande miseria della città viene dalla grande pauvreté" (...) La parola francese sembra rilevare che la miseria viene dall'Occidente".

26. Tale ordinamento fu stabilito il 13 ottobre 1872 per le seguenti provincie: Prussia, Brandeburgo, Pomerania, Posnania, Slesia e Sassonia. Servì da fondamento della riforma amministrativa della Prussia.

Con esso fu abolito il diritto ereditario dei padroni terrieri d'esercitare un potere poliziesco sulle campagne e furono introdotti taluni elementi di autoamministrazione locale, quali la carica elettiva di sindaco e le giunte distrettuali presso i consigli provinciali (eleggibili anch'esse secondo il sistema dei ceti). La riforma aveva lo scopo di consolidare l'apparato statale e di rafforzare il potere centrale nell'interesse degli Junker. In pratica i padroni terrieri appartenenti a questo ceto mantennero il loro potere nei distretti e nelle province, detenendo per lo più personalmente le cariche elettive o facendole occupare da persone di loro fiducia.

*7. Prima della scoperta dell'ossigeno, i chimici si spiegavano la combustione dei corpi nell'atmosfera ipotizzando l'esistenza d'una particolare sostanza combustibile, il flogisto, che si dissolveva nella combustione ed era perciò inafferrabile. Constatando che dopo la combustione i corpi semplici erano più pesanti di prima, spiegavano che il flogisto aveva un peso negativo, sicché un corpo privo del suo flogisto pesava di più che non ritenendolo. Avvenne quindi che un po' alla volta si attribuissero al flogisto tutte le proprietà principali dell'ossigeno, ma alla rovescia. L'avere scoperto che la combustione consiste nell'unione del corpo combustibile con un altro, l'ossigeno, e il poter ottenere chimicamente quest'ultimo, posero fine all'ipotesi del flogisto, ma solo dopo una lunga resistenza da parte dei chimici più anziani.

27. È una citazione a braccio dal Faust (prima parte, "cucina della strega", Mefistofele).

28. Dal carteggio fra Engels e il socialista danese Louis Pio, segretario corrispondente per la Danimarca, si conoscono i grandi successi riportati dai socialisti danesi nel prorogare le deliberazioni dell'Internazionale sulla questione agraria. Nella lettera dell'aprile 1872 al Pio, Engels dà una valutazione positiva dell'articolo, apparso sul Socialisten, giornale di Copenaghen, e in quasi tutta la stampa dell'Internazionale, sulla trasformazione socialista dell'agricoltura tramite la cooperazione. Vi si legge fra l'altro: "Grazie alle loro particolari condizioni locali e alla loro intelligenza politica, i danesi sono in complesso avanti a tutte le altre nazioni in quanto concerne la questione oltremodo importante di coinvolgere i piccoli coltivatori e i coloni nel movimento proletario".

 


Ultima modifica 24.09.2000